“Lo stupro è un processo cosciente di intimidazione con cui tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura”, ecco una delle citazioni più note dell’universo femminista, tratta dal libro Against Our Will: Men, Women and Rape del 1975, dell’attivista Susan Brownmiller. Secondo Brownmiller il fenomeno dello stupro non avrebbe nulla a che fare con uomini immorali che cercano la gratificazione sessuale, ma sarebbe uno strumento dell’uomo per mantenere un sistema di dominio psicologico su tutte le donne. Agli uomini verrebbe insegnato, dal prevalente ethos sessista nella società occidentale, di usare lo stupro come strumento per sviluppare paura nelle donne, e le donne imparerebbero dallo stesso sistema a temere gli uomini. Come succede con la “violenza di genere”, questa dinamica messa in atto dagli uomini nei confronti delle donne nel mondo della sessualità è diventata per il femminismo un argomento talmente sensibile da dover ricevere un nome proprio, che ha ormai preso dimora nei vocabolari ed entrato nel nostro modo di pensare: “cultura dello stupro”.
Nell’ultimo intervento su Angela Davis è stata messa in risalto la sua parzialità in due ambiti di considerevole rilievo: la violenza e la guerra. In questo intervento verrà evidenziata nell’ambito della violenza sessuale: lo stupro. Nella sua opera Donne, razza e classe (Women, Race & Class, 1981, Edizioni Alegre, Roma, 2018) la denuncia del “mito dello stupratore nero” occupa uno spazio molto rilevante. Scrive: “…il mito dello stupratore nero fu un’invenzione politica. Come sottolinea Frederick Douglass, durante la schiavitù gli uomini neri non erano etichettati come violentatori. Durante tutta la Guerra civile, infatti, non un solo uomo nero fu pubblicamente accusato di aver abusato di una donna bianca. Se gli uomini neri avessero posseduto un’esigenza animalesca di stuprare, sostiene Douglass, questo presunto istinto alla violenza si sarebbe certamente attivato quando gli uomini lasciarono le donne indifese per andare a combattere nell’esercito confederato. Nell’immediato dopoguerra lo spettro minaccioso dello stupratore nero non era ancora apparso sulla scena della storia. Ma i linciaggi, riservati durante la schiavitù agli abolizionisti bianchi, iniziarono a dare prova di essere una valida arma politica. Prima che si consolidasse come istituzione, tuttavia, la sua brutalità e i suoi orrori dovettero essere giustificati in maniera convincente. Queste circostanze generarono il mito dello stupratore nero e lo stupro emerse come il mezzo più efficace per giustificare il linciaggio dei neri. […] Qual era la verità dietro a questo terribile e pervasivo mito dello stupratore nero? Sicuramente ci furono dei casi di neri che stuprarono delle bianche. Ma il numero degli stupri effettivi non era nemmeno comparabile con il numero di accuse che si diffusero a causa di questo mito.”
Le donne bianche mentono in un contesto di razzismo.
Per combattere questo “mito” nel 1930 la Association of Southern Women for Prevention of Lynching propose la creazione di “una nuova opinione pubblica”: “L’opinione pubblica ha creduto troppo facilmente che chi partecipa ai linciaggi stia agendo in difesa delle donne. Alla luce dei fatti non possiamo più permettere che queste affermazioni passino incontrastate […]. Ci impegniamo solennemente a creare una nuova opinione pubblica nel sud che non accetti più, per nessuna ragione, azioni di linciaggio. Insegniamo ai nostri bambini a casa, a scuola e in chiesa…”. Angela Davis bacchetta con ragione chi continua a sostenere questo mito con numeri spropositati: “…Jean MacKellar, nel suo libro Rape. The Bait and the Trap […] è stata così ipnotizzata dalla propaganda razzista che è arrivata ad affermare che il novanta per cento degli stupri denunciati negli Stati Uniti sono commessi da uomini neri. L’Fbi invece sostiene che si tratti del quarantasette per cento dei casi: è difficile credere che l’affermazione di MacKellar non sia una provocazione intenzionale”. La scrittrice Harper Lee denuncerà il razzismo di questo mito nel celebre romanzo Il buio oltre la siepe (To kill a mockingbird), vincitore del premio Pulitzer. Oggi questo libro è diventato un simbolo di denuncia della lotta al razzismo. Perché solo contro il razzismo e non anche contro il sessismo o la misandria?
Per Angela Davis pure: la colpa esclusiva di questo mito, che portò al linciaggio e alla morte di tanti uomini neri, è unicamente il razzismo. Nessun accenno al sessismo, alla misandria o al femminismo. Eppure le donne del sud soffiavano su questo mito. Fu Rebecca Felton, leader della sezione georgiana della Women’s Christian Temperance Union e prima donna a essere eletta nel Senato americano, a invocare a nome delle donne i linciaggi alla fine degli anni Novanta dell’Ottocento: “Se occorre il linciaggio per proteggere la più preziosa proprietà di una donna dalle bestie umane, allora io dico: linciate mille volte alla settimana, se è necessario. La poverina preferirebbe la morte a questa ignominia, e quindi io dico: un cappio subito per gli aggressori!”. Furono donne quelle che accusarono falsamente i nove ragazzi neri di “Scottsboro boys”, così come era una donna la mendace accusatrice nel romanzo di Harper Lee. Secondo quanto ipotizza la stessa Angela Davis, erano centinaia le donne che accusavano falsamente. Parafrasando Brownmiller, “la falsa accusa di stupro sarebbe stato un processo cosciente di intimidazione con cui tutte le donne bianche mantenevano tutti gli uomini neri in uno stato di paura”. E così siamo di fronte a un curioso paradosso: secondo gli ambienti progressisti/femministi le false denunce non esistono, secondo però questi stessi ambienti in contesti di razzismo queste sono preponderanti. Quindi le donne (bianche) tendono a mentire in un contesto di razzismo, ma non lo fanno mai al di fuori di questo contesto. Meraviglioso.
È questo razzismo? No, è intersezionalità.
Il “mito dello stupratore nero” non è nuovo, rappresenta la riformulazione dell’antico “mito del nemico stupratore”, che si innesca ogni volta che sorge un conflitto (razziale, etnico o bellico): il modo migliore di infondere coraggio alle truppe maschili è quello di convincerli che devono proteggere l’incolumità femminile, compresa quella sessuale. Per questo motivo Hillary Clinton, da Segretario di Stato americano, durante la guerra di Libia lanciava l’accusa senza alcuna prova: “Gheddafi usa gli stupri e la violenza contro le donne come strumenti di guerra” (sulla manipolazione propagandistica degli stupri nei conflitti armati rimando alla lettura dei numerosi esempi riportati nel libro La grande menzogna del femminismo a pagg. 537, 596-597). Angela Davis, nel tentativo di smascherare il “mito dello stupratore nero”, mette in atto una rigorosa analisi e individua le caratteristiche di questi miti: 1) hanno intenzione politica; 2) servono a giustificare altri misfatti – ad es. l’omicidio o l’appropriazione indebita della proprietà in una separazione – ; 3) bisogna “creare una nuova opinione pubblica”, mediante la propaganda, “ai bambini a casa, a scuola, in chiesa”, e mediante l’uso spudorato della bugia e dei dati e le statistiche con totale impudenza (ad es. i dati fasulli di Jean MacKellar richiamano alla mente le attuale statistiche sugli stupri nelle università americane: una su quattro è vittima di stupro).
Può essere applicata quest’analisi all’attuale “cultura dello stupro”? Quando si tratta dell’uomo bianco, la Davis non riesce a conciliare l’analisi rigorosa e imparziale con la propria fede femminista, che stabilisce tra i suoi dogmi quello della cultura dello stupro maschile. A questo proposito lei scrive: “Ma perché ci sono così tanti stupratori anonimi? Forse è un privilegio di quegli uomini che grazie al loro status possono sottrarsi dall’essere perseguiti penalmente? Non vi è dubbio che i bianchi che sono imprenditori, dirigenti, politici, medici, professori, ecc., ʻapprofittinoʼ delle donne, che considerano come esseri socialmente inferiori. […] significativa percentuale degli stupri non denunciati? […] La struttura di classe del capitalismo incentiva gli uomini che esercitano il potere sul terreno politico ed economico a diventare agenti quotidiani dello sfruttamento sessuale. L’attuale epidemia di stupri avviene…”. Secondo la Davis, in relazione ai neri c’era un eccesso di accuse false, adesso vale il contrario, riguardo ai bianchi c’è una mancanza di denunce di casi reali. Il termine adoperato è “epidemia”. Ora sì siamo nella “cultura dello stupro”. Nell’universo bianco vale la massima “ogni penetrazione è uno stupro” e non ci sono false denunce. Nella mente dell’antirazzista Angela Davis l’uomo bianco stupra, l’uomo nero no. È questo razzismo? No, è intersezionalità.
Si tratta di persone premiate e insignite.
Ma la parzialità della Davis non si ferma qui. Angela Davis è anche dichiaratamente comunista. Scrive: “Il movimento contro lo stupro e la sua importante attività – dal sostegno psicologico e legale all’autodifesa e alle campagne educative – deve collocarsi in un contesto strategico che punti alla sconfitta definitiva del capitalismo monopolistico”. Cosa c’entrano il comunismo e il capitalismo con lo stupro? Nei paesi comunisti non si stupra? Le truppe comuniste sovietiche, quando entrarono a Berlino, non stuprarono? L’aspetto più sconfortante della scandalosa parzialità della Davis, che la porta a sconfinare nel ridicolo, come fa in quest’ultima citazione, non è il suo grado di settarismo, identico a quello di tante altre consorelle femministe – Betty Friedan, Simone de Beauvoir, Kate Millett, Oriana Fallaci, Virginia Woolf… L’aspetto più grave e sconfortante è il riconoscimento che queste persone ottengono a livello accademico e istituzionale, malgrado le assurdità di quel che sostengono. Si tratta di persone premiate e insignite. Angela Davis, tra le altre cose, è professoressa emerita presso l’Università della California, è stata inserita nella National Women’s Hall of Fame degli Stati Uniti. È sconfortante perché il loro riconoscimento a livello accademico, istituzionale, governativo, sancisce l’adesione dei poteri sociali a questa visione ideologica e scandalosamente parziale del mondo. Sorge il triste sospetto che la verità possa essere molto diversa: “la falsa accusa di stupro è un processo cosciente di intimidazione con cui tutte le donne mantengono tutti gli uomini in uno stato di paura”.