Come fanno determinate chiavi di lettura, o “sentiment” come si dice in gergo, a predominare nella cultura diffusa? Nella nostra ottica: come fanno il femminismo e l’ideologia queer ad attecchire e dilagare così tanto, fino a influenzare concretamente libertà e opportunità di tutti? Proviamo a proporre una risposta a queste domande facendo un’analisi ampia del contesto in cui ci muoviamo, suggerendo alla fine qualche strategia correttiva. Il punto da cui partire è indubbiamente costituito dalla quantità e dalla diffusione di dispositivi connessi alla rete: computer, tablet, smartphone rendono in pratica ognuno di noi, in numero crescente mano a mano che si includono le giovani generazioni, sempre dentro la rete. L’essere costantemente connessi è diventata parte integrante della nostra vita, un elemento irrinunciabile della nostra esistenza, e il recente down temporaneo di Google, con le relative scene di panico, lo ha dimostrato ampiamente. Per averne un’ulteriore evidenza, provate a spegnere ogni dispositivo che avete e a rinunciarvi per un paio di giorni. Si otterrà una sensazione di vuoto, depressione, blanda ma insistente angoscia. Ecco perché, come ha efficacemente detto uno specialista americano del settore, oggi le persone si dividono in due categorie: chi al mattino appena sveglio guarda le notifiche del cellulare prima di fare pipì e chi le guarda mentre fa pipì.
Per capire come siamo arrivati a questa forma di gigantesca e collettiva dipendenza occorrerebbe conoscere il reale funzionamento delle piattaforme che usiamo. E su questo c’è un gap formidabile. Ci mettiamo alla guida di un’auto senza avere la patente, senza sapere come funziona, con il risultato che è lei a portarci dove vuole. E ci porta proprio là dove alcune idee predominano e altre soccombono. La prova? Trovate la persona più vicina a voi in termini caratteriali, gusti, orientamenti culturali, preparazione scolastica, eccetera. Sedetevi vicini, andate su Google e digitate entrambi la stessa chiave di ricerca, una qualunque purché sia la stessa. Riscontrerete che la lista dei risultati sarà diversa: a uno verranno segnalati link che l’altro non vedrà e quelli in comune saranno comunque posizionati diversamente nell’elenco. Accade perché gli algoritmi che governano tutto ciò che usiamo in rete (motori di ricerca, social network, eccetera) ci restituiscono sempre ciò che ritengono possa piacere, attirare l’attenzione, soddisfare il bisogno di noi singolarmente, come individui. Sono risultati personalizzati, proposti alla luce della profilazione che di noi è stata fatta da quegli stessi algoritmi sulla base delle nostre ricerche precedenti, i nostri “like”, i nostri “follow” e una miriade di altri elementi su cui qui non è il caso di entrare nel dettaglio. Teoricamente è il top del servizio per l’utenza: risultati specifici e personalizzati solo per me. In realtà le implicazioni sono più ampie.
Si chiama “polarizzazione” e c’è sempre stata nel campo delle idee.
Il fatto che Tizio, cercando X su Google ottenga risultati diversi da Caio, seppure anch’egli abbia cercato X, ha un effetto concreto sulla percezione globale della realtà. Ciò che ci viene mostrato, infatti, non è la realtà e nemmeno la verità, bensì sono la realtà e la verità che gli algoritmi calcolano ci possano piacere o compiacere di più. Il problema si ingrandisce riflettendo sul fatto che, lo si voglia o no, ciò che vediamo nella lista dei risultati o nel “feed” dei nostri social (ossia la pagina “Home”, con l’elenco a scorrimento delle notizie o dei post dei nostri contatti) finisce per essere per noi non una rappresentazione del mondo, ma la rappresentazione del mondo. In realtà è una bolla, una camera dell’eco costruita su misura. Salvo pochi con una coscienza critica sviluppata, tutti noi diamo le nostre preferenze (like, follow, eccetera) a chi produce contenuti che ci piacciono, ci interessano, ci stimolano, ci divertono. Selezioniamo in rete i contenuti che concordano con la nostra idea di mondo e la rete ci restituisce un ritratto del mondo che ci piace (o ci piacerebbe). Prima di capire le conseguenze di questo, vediamo brevemente perché accade questo. È piuttosto semplice in realtà: le piattaforme che troviamo in rete (Google, Facebook, Instagram, Linkedin, Twitter, YouTube, eccetera) sono in costante competizione per ottenere la nostra attenzione. Hanno bisogno che non stacchiamo gli occhi dal dispositivo, che continuiamo a scorrere le loro pagine, in modo anzitutto da poterci mostrare le inserzioni pubblicitarie per cui qualcuno li ha pagati, e poi anche per altri scopi su cui qui non ci soffermeremo (ma ne parleremo in futuro, forse). Per garantirsi questo, fanno in modo di farci visualizzare quanti più contenuti possano esserci graditi, escludendo quelli che potrebbero portarci a chiudere l’applicazione e riporre il telefono. È da questo che è costituito, in parte, il loro business.
Detto questo, sarà capitato a tutti di navigare in rete districandosi tra i risultati di Google, le notizie messe in rilievo dai nostri social preferiti e avere l’impressione che il mondo sia interamente d’accordo con noi o giù di lì. Tutto ciò che vediamo sul display o sul monitor sembra confermarlo. Ma allora perché, viene da chiederci, le cose nella realtà continuano ad andare in un modo che non ci piace? Sul web siamo un esercito a pensarla allo stesso modo… basterebbe solo organizzarci nella realtà per cambiare le cose! Il problema è che ciò che vediamo, come detto, è una camera dell’eco costruita dagli algoritmi delle piattaforme per farci vivere nel nostro mondo ideale e farci così produrre abbastanza dopamina da continuare a stare connessi a scorrere paginate di inserzioni pubblicitarie più o meno palesi. Sui grandi numeri questo fa identificare milioni di persone in specifici schemi di interpretazione del mondo, che talvolta hanno un nome (i no-vax, i complottisti, i sovranisti, gli europeisti, i fan di Greta Thunberg, i mobilitati per Patrick Zaki, e così via) e che finiscono per raggrupparsi in due o tre aree contrapposte, che si fronteggiano con grande ferocia, non di rado odiandosi con straordinaria profondità. I no-vax odiano i pro-vax, i complottisti odiano i debunker, le femministe odiano chi non è femminista, gli LGBT odiano gli eterosessuali, tutti reciprocamente a generosamente ricambiati. È un odio di fazioni e tribù le une contro le altre, pronte a distruggersi a vicenda. Si chiama “polarizzazione” e c’è sempre stata nel campo delle idee. Ma quella di cui stiamo parlando ha una caratteristica molto particolare.
Dalla sovraesposizione traggono il potere.
Si tratta di una polarizzazione basata non su una realtà fattuale verificata secondo metodi condivisi, non su un qualcosa che sia il più vicino possibile alla verità. Le tribù attuali non si fronteggiano più, come quelle di un tempo, per il possesso di un territorio reale o per principi chiaramente descritti e contrapposti. Quella attuale è una polarizzazione basata su tante realtà e verità diverse e personalizzate quante sono le persone che non solo ci si riconoscono, ma contribuiscono a crearle con i loro like, follow, eccetera. Il meccanismo è diabolico: mi piace un’idea di mondo, cerco notizie su quell’idea di mondo e insegno così all’algoritmo a darmi risultati che mi piacciano e che mi confermino l’esistenza di quel mondo, che in breve finisce per costituire per me l’unico esistente, rendendo nemico da annientare chiunque ne neghi quella che in questo modo mi pare la sua evidente diffusione e bontà. Se nel digitare su Google “adozioni gay”, tema su cui sono favorevole, ottengo centinaia di migliaia di risultati che mi danno ragione, come osano alcuni altri opporsi alle adozioni gay? Osano perché a loro volta le loro ricerche contro le adozioni gay avranno ottenuto centinaia di migliaia di risultati compiacenti. Così arriviamo all’epoca in cui togliamo l’amicizia su internet e il saluto nella realtà a persone che votano un partito diverso dal nostro o hanno idee diverse dalle nostre, tagliando di netto ciò che costituisce la materia prima per la rete comunitaria (e non di rado nazionale): la capacità di rispettarsi nonostante le differenze, anzi proprio per l’esistenza di tali differenze. Se tutto questo è chiaro, e si badi che è solo un’illustrazione parziale e semplificata della faccenda, possiamo ora tornare agli interrogativi iniziali. Perché talune visioni del mondo dilagano così tanto e così profondamente, e altre no?
Non perché siano buone, nemmeno perché siano la verità o una rappresentazione corretta della realtà. Semplicemente perché molte persone hanno insegnato agli algoritmi che quelli sono temi più importanti di altri. Sono di più le persone che digitano su Google “violenza sulle donne” che “false accuse”, o che cliccano e commentano gli articoli di Michela Murgia o Selvaggia Lucarelli, o che seguono Lorenzo Tosa o Fabrizio Del Prete, per complimentarli o sbertucciarli. Non si tratta necessariamente di persone che la pensano come loro: tra quei click e quelle ricerche c’è anche un’enorme quota di persone che vogliono la dose di adrenalina generata dall’indignazione e dall’arrabbiatura nel leggere contenuti contrari alle loro opinioni o dall’esprimere repliche al vetriolo. Quel mondo dilaga perché una massa di persone insegna agli algoritmi che si tratta di un mondo desiderato: più essi registrano questo messaggio, più rendono quel mondo visibile. È il loro mestiere, non ci stanno a riflettere troppo su, tanto meno analizzano i contenuti. Farebbero lo stesso fossero anche contenuti del tutto insensati (così si spiegano bolle assurde come il “terrapiattismo” o il “pizzagate”). Questo meccanismo crea una sovraesposizione straordinaria per i sostenitori di certe ideologie, che da quella sovraesposizione traggono il potere per agire e ingenerare cambiamenti nella realtà fuori dall’internet, come le censure, il ritiro di libri, calendari, video, film, musiche e altro.
Usare la rete, smettendo di farsi usare da essa.
Ebbene, c’è modo di invertire la tendenza? Sì. È faticoso e in certa misura anche un po’ infantile, ma si può fare. Bisogna partire dall’assunto che gli algoritmi sono sostanzialmente stupidi. Si tratta di processi informatici, non umani, per questo sono stupidi. E in buona parte sono anche fuori dal controllo di chi li ha creati. Se dunque milioni di persone da domani si mettessero a cercare “necrofilia”su Google più volte al giorno, ogni giorno per un mese, aprendo e diffondendo magari profili social a tema, in breve la necrofilia diventerebbe un “trend topic”, quand’anche i gestori delle piattaforme mettessero blocchi o tentassero di influenzare meccanismi che loro stessi hanno progettato affinché camminassero con le loro gambe, e che ormai viaggiano autonomamente come treni in corsa. Dunque come ridurre alle sue vere dimensioni, cioè pressoché irrilevanti, fenomeni come il femminismo e l’ideologia queer, nella loro versione telematica e in quella conseguente e più pericolosa nella realtà? Smettere di cercare notizie che siano ad esse collegate. Smettere di condividerne i link e di aprirli, di seguirne sacerdoti e sacerdotesse, tanto meno di mettere like o commentare “contro” (ché tanto non serve a nulla, anzi: suggerisce agli algoritmi che certi temi suscitano più traffico…). Dove si può, è bene usare motori di ricerca che non usino il tracciamento (come Qwant) e se non si può fare a meno di condividere un contenuto, per lo meno se ne neutralizzi la viralizzazione passandolo prima al filtro di servizi come archive.is o altri sistemi di “freezing” delle pagine web. Oltre a ciò servono azioni positive: seguire, mettere like, condividere e commentare contenuti antifemministi e anti-queer con frequenza regolare, generare traffico attorno ad essi. In aggiunta sarebbe utile prendersi la briga ogni giorno di cercare su Google almeno dieci termini mirati (antifemminismo, anti-gender, false accuse, false denunce, violenza contro gli uomini, manosphere, famiglia, diritti maschili, paternità, alienazione parentale), aprendo i primi dieci risultati con contenuti non femministi e tenendoli aperti per almeno cinque-dieci minuti. Migliaia di persone che facessero così, con rigore e disciplina per un paio di mesi, ed è certo che la musica cambierebbe radicalmente e con una velocità sorprendente. Il ritorno alla normalità passa anche da un atto rivoluzionario, insomma: usare la rete, smettendo di farsi usare da essa.