Manifesti sì, manifesti no. Qui restano, là vengono tolti. Dura da qualche giorno la querelle su alcuni manifesti che il movimento “Pro Vita” ha fatto affiggere nelle maggiori città italiane per mettere in guardia le giovani donne dall’utilizzo di quella pillola abortiva, la RU486, che secondo i promotori sarebbe due volte una iattura: anzitutto perché uccide un embrione che potrebbe svilupparsi in una vita, ma anche perché è dannosa per la salute della donna. Il manifesto è audace e provocatorio, come spesso lo sono quelli del movimento Pro Vita: una donna giace morta sul pavimento tenendo in mano una mela morsicata. Un duplice simbolo, sia biblico che disneyano, per far passare il messaggio espresso a chiare lettere: “Stop alla pillola abortiva RU486: mette a rischio la salute e la vita della donna e uccide il figlio nel grembo”, il tutto accompagnato da un hashtag astuto: #dallapartedelledonne.
Che la RU486 faccia male è vero o è falso? Se la pillola è in circolazione in teoria vuol dire che non ha impatti significativi sulla salute, anche se qualche dubbio su tutto ciò che concerne la farmaceutica, le verifiche e i permessi è lecito averlo. In ogni caso con quei cartelloni il movimento Pro Vita esprime il proprio legittimo punto di vista, utilizzando un linguaggio visuale blandamente provocatorio ma assolutamente mantenuto nei confini della continenza. Eppure ha scatenato l’inferno ad ogni livello, da quello più basso e gretto, ossia le befane di “Non Una di Meno” che ne hanno imbrattati e strappati parecchi, facendo ridicoli presidi davanti alle affissioni, fino a livelli più “alti” e istituzionali, con parlamentaresse adontate all’inverosimile vomitanti fasi originalissime del tipo: “giù le mani dalla Legge 194” (come se dei manifesti potessero cambiarla) o “nessuno tocchi la libertà della donna di disporre del proprio corpo” (slogan che per altro tramonta magicamente quando si parla di prostituzione).
“Roma finora non fa nulla”.
A fronte di questo braccio di ferro tra un lato, che paga denaro sonante per delle affissioni che con continenza esprimono un’idea legittima, e l’altro che trae dai manifesti conclusioni così da nacht und nebel da legittimare la richiesta di rimozione (cioè di censura), si è formato uno spartiacque. Da un lato alcune amministrazioni comunali hanno preferito rinunciare all’introito pur di obbedire al diktat femminista e hanno fatto togliere i manifesti. La più importante tra queste è Milano, quella in mano a un tizio che si fa le foto con le calze color arcobaleno-gender: in meno di 24 ore Sala ha fatto tirare giù tutti i manifesti. Dall’altro ci sono città che invece hanno risposto picche. Genova ad esempio (figuriamoci se Palazzo Tursi rinuncia alle palanche!), ma soprattutto, orrore orrore, Roma, che così si è guadagnata la critica inferocita, manco a dirlo, dei media più allineati al pensiero unico censorio, ad esempio “La Repubblica“.
“Roma finora non fa nulla”, titola il quotidiano del Gruppo Gedi, e in quel “finora” sta tutta la speranza che l’amministrazione della Raggi si pieghi docilmente, come già tante volte in precedenza. Eppure al Campidoglio tentennano. Come mai? Ci piace pensare che sia perché sanno che in merito ai manifesti della Città Eterna c’è una sentenza che, nella sua insensatezza, fa da inciampo. Era il gennaio 2019 e 118 ricorrenti tra singoli e associazioni richiedevano al Comune di Roma di rimuovere manifesti che criminalizzavano gli uomini per mezzo di dati destituiti di fondamento, vere e proprie gigantografie reperibili in ogni parte della città. Il messaggio era questo:
Chi vorrebbe vivere in un contesto di menzogna istituzionalizzata?
Il Comune disse di no alla rimozione e i 118 ricorsero al Tribunale civile. Pochi mesi dopo, in aprile, il giudice Cecilia Pratesi (di Magistratura Democratica) emise una sentenza che, in sostanza, diceva così: è vero, i dati del manifesto sono falsi. Ma si tratta di una pubblicità “a fin di bene”, per un messaggio meritorio, quindi la menzogna è tollerabile. Il fine giustifica i mezzi, insomma. E se qualcuno si sente offeso dal messaggio è perché ha una sua intima “idiosincrasia”, cioè in qualche modo si sente chiamato in causa e coinvolto. Così i manifesti rimasero al loro posto e i 118 dovettero accollarsi le spese, che il giudice Pratesi calcolò al massimo edittale, una fucilata in faccia ai ricorrenti, nonostante ci fossero state tre udienze striminzite. Per la serie: beccatevi questa e non provateci più a toccare “Rosa Nostra”. Così almeno la interpretarono i 118, con l’unica consolazione che quella sentenza discutibile avrebbe fatto precedente. Da quel momento nel Lazio sarebbe stato legittimo infatti affiggere manifesti con dati clamorosamente falsi purché la finalità fosse positiva. E se qualcuno se ne sentiva colpito, era per un senso di colpa interiore, inconfessato e inconfessabile. “Non Una di Meno” e le altre compagne di merende che ora protestano si facciano dunque qualche domanda. Ma soprattutto ecco spiegato perché anche il manifesto dei Pro Vita riporta astutamente l’hashtag #dallapartedelledonne, lo stesso che appariva sui manifesti di odio antimaschile affissi a inizio 2019 a Roma.
Chiariamoci, a scanso di equivoci: non si tratta qui della questione aborto. Ne abbiamo già parlato in precedenza ed è inutile ripetersi. Tanto meno vogliamo trattare della pericolosità o meno della RU486. Il centro del discorso qui vuole essere qualcosa a nostro avviso di più importante: la libertà. In particolare quella di opinione. In una società libera dovrebbero essere davvero poche le cose che non è lecito dire. L’eventuale divieto di esprimersi dovrebbe avere solide basi per essere imposto. In Italia, ad esempio, è vietato manifestare idee nazifasciste o antisemite e razziste, e c’è qualche milionata di morti (italiani e non) a garantire che si tratta di un divieto accettabile. Va tenuto fermo però che, al di là di limiti più o meno legittimi, è nel confronto di idee anche sideralmente lontane che si apre una strada capace di avvicinarsi alla verità delle cose e alla giustizia. Dunque più libertà di esprimersi c’è, meglio è, a meno di non voler vivere in un contesto di menzogna istituzionalizzata.
Il femminismo è il covid della società.
C’è solo una categoria di persone che può temere, e per questo cercare di sopprimere, la libertà di espressione: coloro che per qualche motivo sono in malafede nel sostenere le proprie idee. Costoro temono il confronto perché sanno che è lo strumento principale per demistificare le loro bugie e mettere a nudo la loro coscienza sporca e le loro cattive intenzioni. L’aborto è uno di quei temi dove, con un dibattito oggettivo e non ideologico, si rischia di scoperchiare un pentolone infernale di interessi e disumanità. Ecco allora che le “idiosincratiche” svalvolano, imbrattano i manifesti altrui, li strappano o ordinano perentoriamente a sindaci scodinzolanti di farli rimuovere. Non chiamano a rapporto i Pro Vita in un dibattito pubblico per sbugiardarli e svelare l’infondatezza delle loro idee. No: censurano e basta. Tolgono spazi di libertà d’espressione, privano di ossigeno l’intera società. In questo senso il femminismo è il covid della società, un virus che soffoca uomini e donne desiderosi semplicemente di ascoltare opinioni diverse per farsi una propria idea. Ad essi il femminismo serra i polmoni decidendo a priori e con violenza di cosa si può parlare e di cosa no. Senza accorgersi che le persone tutte, uomini e donne, ne hanno le palle stracolme della loro censura.