La Fionda

L’ammonimento del Questore: difendersi dalle false accuse si può

L’ammonimento è uno degli istituti legati all’articolo 612 bis del Codice Penale, il cosiddetto “anti-stalking”. Consiste in una sorta di via di mezzo prevista dal legislatore tra l’archiviazione della denuncia e il procedimento penale vero e proprio. La vittima che si senta perseguitata può attivare le forze dell’ordine che, in prima battuta, invece di arrestare il soggetto indicato come “stalker”, possono ammonirlo, tramite ordinanza del Questore. L’ammonimento contiene l’ordine di non contattare o avvicinarsi più alla persona denunciante, con la specifica che se l’ordine verrà disatteso, scatterà il procedimento penale d’ufficio per atti persecutori e magari anche l’arresto. Chiunque abbia subito un ammonimento sa che la procedura è quanto mai anomala: si viene convocati in un ufficio di Polizia o dei Carabinieri dove l’accusa di aver avuto una condotta persecutoria e l’ordine di astenersi dal proseguire tale condotta vengono soltanto notificati. Non c’è modo di difendersi, discolparsi, dimostrare la propria estraneità: si deve ascoltare e basta. Nemmeno è possibile accedere agli atti depositati dalla persona denunciante per capire nel dettaglio perché abbia di che recriminare, quali atti nello specifico sono causa dell’ansia in cui autocertifica di ritrovarsi. L’agente di Polizia o il carabiniere non entra nel dettaglio, non gli è richiesto, il suo messaggio in sostanza sarà: “Tizio è in ansia, ha cambiato abitudini di vita e teme per la sua incolumità per colpa tua. Smettila (anche se non viene detto cosa si deve smettere di fare) o parte il procedimento penale”.

In taluni casi, a fronte della preoccupazione del denunciato, le forze dell’ordine specificano sempre, con toni rassicuranti: “non si preoccupi, l’ammonimento è un atto amministrativo, come una multa, non va nel casellario giudiziario”. Una bugia o un’informazione data così per ignoranza. In realtà l’ammonimento, pur essendo effettivamente un atto amministrativo e dunque non apparendo nel casellario giudiziario, resta appiccicato al nome della persona accusata all’interno del Centro Elaborazione Dati delle forze dell’ordine. E non viene considerato “come una multa”, anzi. Se anni dopo un’altra persona avesse da lamentarsi della condotta del soggetto ammonito e lo segnalasse di nuovo per atti persecutori, la presenza di un precedente ammonimento lo classificherebbe come “recidivo”, dunque verrebbe immediatamente arrestato e portato a processo. In altre parole: si può ricevere un solo ammonimento nel corso della vita. Al secondo, scatta l’arresto. Dunque “come una multa” un piffero: siamo davanti a un atto amministrativo che assume peso penale, non si sa bene con quale legittimità di legge. Vero è che l’ammonito ha il diritto di presentare una memoria difensiva che però, non sapendo nulla nel dettaglio delle accuse che gli sono state mosse, andrà inevitabilmente un po’ alla cieca. E che in ogni caso viene sempre del tutto ignorata dalla Questura. Ad ammonimento irrogato, l’ammonito può fare ricorso, ma trattandosi di un atto amministrativo deve rivolgersi al TAR o al Presidente della Repubblica. Durata della causa: circa sei anni. Costo: almeno 4 mila euro.

Un modo per stroncare, a norma di legge, le false denunce.

Ecco allora che l’ammonimento ex art. 612 bis diventa una via di mezzo tra il marchio d’infamia e la famosa spada di Damocle, che solo una persona paziente e ricca può tentare di rimuovere per vie legali. Sono aspetti, questi, poco noti per quanto riguarda il modo folle con cui il reato di stalking è stato regolamentato e viene perseguito. Folle perché, non sfugge a nessuno, con questo meccanismo si spalancano le porte all’utilizzo strumentale della denuncia che, anche se falsa, ottiene risultati immediati strepitosi: se va bene, un procedimento con tutti i crismi; se va male, con un ammonimento con cui tenere per i testicoli l’accusato. Non è un caso che, insieme alla violenza sessuale, lo stalking sia al top tra le fattispecie oggetto di false denunce (circa il 90%) di donne contro uomini. Ed è proprio per questi frequentissimi casi che esiste un modo potenzialmente molto efficace per difendersi o, per lo meno, rendere difficile la vita alla Questura, quando questa tende ad assecondare la persona denunciante (praticamente sempre), senza fare qualche verifica sulla veridicità delle accuse. Questa possibilità di difesa si impernia sulla legge a tutela della privacy. Supponiamo che Tizio denunci Caio per atti persecutori, e che nell’atto dichiari dettagli falsi su Caio stesso. Esempio banale: “Caio è un fallito, pieno di debiti, così frustrato da perseguitarmi…”. Supponiamo che Caio non sia affatto pieno di debiti: ebbene, nonostante sia un’informazione falsa, il dettaglio finisce trascritto sia nella denuncia che nell’atto di ammonimento, dunque in ogni altro anfratto informatico relativo a Caio all’interno dei sistemi delle forze dell’ordine.

In un caso come questo, la Questura raccoglierebbe e registrerebbe dati non veritieri e questo configurerebbe una violazione delle norme sulla raccolta di dati personali. A quel punto si può chiedere in ogni tempo la correzione, senza termini di decadenza. In caso di diniego da parte della Questura, si potrebbe chiedere il risarcimento dei danni in sede civile, oppure fare ricorso al Garante per la protezione dei dati personali per ottenere la cancellazione o correzione dei dati non veritieri. Se poi quei dati finiscono nel Centro Elaborazione Dati (ed è certo che ci finiscano), si configurerebbe un danno da falsa informazione, in precedenza disciplinato dall’articolo 15 dell’abrogato codice della privacy, che equiparava la attività di raccolta dati ad una attività pericolosa, sicché spettava alla Questura dare prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Attualmente la disciplina è quella di cui all’articolo 82 GDPR il cui comma 3 dispone che il titolare o il responsabile del trattamento è esonerato dalla responsabilità solo «se dimostra che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile». In altre parole: se subite un ammonimento e il testo che vi viene consegnato contiene informazioni false sul vostro conto (cosa molto probabile se si tratta di una delle 90 false denunce su 100), avete ampi margini per portare la Questura al tribunale civile e chiedere risarcimento, con ottime possibilità di successo. Il tutto, è ovvio, a norma di legge. E con un possibile effetto positivo: a forza di sborsare risarcimenti, le Questure potrebbero iniziare a prestare un po’ più di attenzione nel raccogliere le fantasie delle persone denuncianti falsamente per stalking e potrebbero iniziare a chiedere qualche riscontro concreto alle accuse portate. Non è improbabile che in questo modo calerebbero i tentativi di usare strumentalmente il 612 bis.

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