Si prenda un uomo come tanti, che oggi prova ad “agganciare” una donna, per pure finalità ludiche, utilizzando internet. Ci sono siti apposta per questo. Trovatane una disponibile, invia foto hard di se stesso. L’interlocutrice, evidentemente soddisfatta di ciò che ha visto, restituisce il favore inviando a sua volta foto esplicite. Fin qui tutto più o meno bene, quanto meno molto usuale oggi, tanto che la cosa ha un nome: “sexting“. L’uomo poi chiede altri scatti, ma la ragazza rifiuta. Per convincerla lui le dice che, se non manda altro materiale, divulgherà quell’unica foto che ha ricevuto. Bene (anzi: male): come si chiama tutto questo? Ricatto, dal lato morale. Estorsione, dal lato penale. Possiamo concordare di essere tutti d’accordo su questo, giusto? Ebbene, la fanciulla coinvolta no. Per lei è violenza sessuale. Sì, avete ben inteso: i due non si sono nemmeno mai incontrati di persona, è una cosa avvenuta online. Però lei sostiene di essersi sentita violata. Vabbè, direte, con il dilagare delle accuse false e fantasiose che c’è, una più una meno non fa quella gran differenza, giusto?
Sbagliato. Soprattutto nel momento in cui la questione viene presa in mano dalla magistratura. Il porcello malcapitato infatti si becca una condanna per violenza sessuale, con relativa misura di custodia cautelare in carcere. Ovvio che faccia ricorso fin dove può, e poco tempo fa la vicenda è approdata alla Corte di Cassazione, che ha confermato la giustezza del procedimento (sentenza n.25266 dello scorso 8 settembre). L’uomo merita il carcere. Non ha nemmeno mai incontrato fisicamente la “vittima”, ma in carcere va lo stesso. Ne parla in un recente articolo la rivista online “Altalex”, che svela l’esistenza di sentenze pregresse che fanno da puntello a questa decisione. La prima è la 8453 del 1994, che configura il reato di tentata violenza carnale per la semplice minaccia di mandare foto intime di una persona ai parenti della stessa. Un’altra è la 19033 del 2013 dove si afferma che “nella violenza commessa mediante strumenti telematici, la mancanza di contatto fisico tra l’autore del reato e la vittima non costituisce circostanza attenuante del fatto di minore gravità”. Il punto centrale sta nella minaccia alla divulgazione delle foto, che da sola integrerebbe il reato di stupro, ponendosi come sbilancio di potere a favore dell’uno per ottenere dall’altro soggetto una prestazione di tipo sessuale, anche se solo attraverso un canale appunto “telematico”.
Ma forse siamo davvero noi i complottisti e visionari.
C’è evidentemente qualcosa che non va in tutto questo, sia dal lato logico che da quello meramente giurisprudenziale. Sotto il primo profilo, siamo a un’interpretazione del termine “violenza” talmente allargata da comprendere in sé qualunque cosa. Manca poco che “fare il processo alle intenzioni” smetterà di essere un modo di dire e diventerà un fatto vero e proprio. È anche con la violenza (questa sì) fatta ai concetti e alle parole che li esprimono che si sovverte un sistema. Quando un’estorsione viene fatta passare per stupro solo perché c’entra il sesso, quando una fischiata per strada viene fatta passare per molestia solo perché c’entra il sesso, qualcosa non va nel complesso dei valori collettivi e nelle regole atte a proteggerli. Oltre al furto del lessico: quando si dovrà parlare di una violenza vera che termini si useranno? Senza contare che l’anomalia è anche dal lato giurisprudenziale, e a dimostrarlo sta anche l’articolo di Altalex, che descrive il fatto come avvenuto tra un uomo e una “ragazza”. Non si parla di “minorenne”, ma di ragazza. Se il caso avesse coinvolto una giovane sotto i 18, sarebbe stato di certo messo ben in rilievo. Eppure l’articolo viene arricchito dal parere di don Fortunato Di Noto, impegnato da sempre conto la pedopornografia, e da una sbrodolata sul “revenge porn”. Due fattispecie che con il caso narrato non hanno nulla a che fare: sembrano piuttosto messe lì solo per dare legittimità all’ennesima follia della Cassazione.
Non resta che chiedersi il motivo di questo tipo di deriva che ha tante sfaccettature (anche dal lato dell’informazione di settore, per altro). Le ipotesi che siti come il nostro fanno provocano la pelle d’oca ad alcuni e le risate sprezzanti di altri, lo sappiamo. Riteniamo che ci siano “grandi architetti” dietro questo tipo di andazzo. Potenti lobby che realizzano nella realtà quotidiana, nella giustizia come nelle amministrazioni pubbliche, nei posti di lavoro come nel privato di tutte le persone, principi e dogmi che sovvertono il naturale equilibrio tra i generi, mettendoli l’uno contro l’altro e favorendo sfacciatamente quello femminile. Uomini sempre più depressi e depotenziati sono la scorciatoia verso una realtà sociale globale più docile, governabile e incline a farsi dettare “policy di comportamento” definite altrove, in particolare dove qualcuno prospera a danno dei molti. Complottismi? Follie visionarie? Forse, speriamo vivamente di sbagliarci. È che tutto ciò che osserviamo attorno a noi depone a favore della nostra visione allarmistica. Nel caso in questione è proprio una frase usata dalla rivista specialistica Altalex. Una piattaforma tecnico-giuridica, non un sito gossipparo. La frase è all’inizio dell’articolo, passa quasi inosservata agli occhi del lettore disattento o desideroso di andare al punto cruciale. Eppure è il centro nevralgico di tutta la questione. Settima riga, la pronuncia della Corte di Cassazione “accoglie le pressioni delle associazioni che tutelano le vittime di violenza di genere”. Tredici parole che gettano Montesquieu, l’indipendenza della Magistratura, la democrazia, la libertà nel tritarifiuti. Un omicidio del Diritto, esecutore la Corte di Cassazione, mandante il femminismo. Ma forse siamo davvero noi i complottisti e visionari. Sì, dev’essere così.