Una delle questioni che potremmo definire arcaiche per il mondo della critica al femminismo è la difficoltà nel definire cosa sia il femminismo stesso. Quando si interloquisce con una persona femminista sono vari i cul de sac nei quali si rischia di finire. Uno dei principali è proprio la discrezionalità soggettiva che l’interlocutore ha nel poter definire cosa sia o non sia femminismo. Come ben sappiamo, questa ideologia gode di un relativismo estremamente sfuggente, spesso si afferma che esistano vari femminismi e non uno solo, e trovare un punto comune e una definizione precisa e condivisa di femminismo è stato il primo cruccio di chi ha voluto porsi criticamente verso di esso (e di conseguenza al di fuori). In questo contesto così sfuggente è chiaro che diventa difficoltoso, senza un principio identificativo, collocare se stessi o qualcuno all’interno o al di fuori del femminismo, di conseguenza risulta doveroso poter raggiungere questa definizione oggettiva.
Ricordiamo Che Santiago Gascó Altaba affronta questo dilemma come punto di partenza nel suo libro e ne esplica una sintesi molto chiara nella puntata di Radio Londra intitolata “Femminismo: anatomia di una menzogna”. La questione è riassumibile nella seguente domanda: se ci sono le femministe abortiste e quelle antiabortiste, le femministe per il velo e quelle contro il velo, le femministe per la prostituzione e quelle contro la prostituzione, che cosa renderà mai tutte queste femministe delle femministe? La risposta è che partono tutte dal principio unico secondo il quale le donne devono essere liberate in quanto storicamente oppresse da un patriarcato che le discriminerebbe. Se parlate con una femminista e le chiedete cosa sia il femminismo, nove volte su dieci vi verrà detto che il femminismo è per la parità dei sessi, ma se le farete notare che dalla nascita del femminismo ad oggi questo movimento non ha mai combattuto per risolvere un problema di disparità a danno del maschile, si manifesterà la vera aspirazione del femminismo, che non è la parità tra i sessi, ma la liberazione delle donne da una condizione di oppressione univoca.
Come evitare queste débacle filosofiche?
In sociologia la caratteristica principale della società patriarcale è quella di demandare il potere formale al capo famiglia uomo. Ciò che il pensiero femminista ha però col tempo sovrapposto a questo concetto è l’idea di patriarcato inteso come responsabilità maschile della società e della sua storia, deresponsabilizzando di conseguenza il femminile. In ottica femminista, l’intero passato è un passato di maschilismo, dove gli uomini avrebbero oppresso le donne, un passato dal quale liberarsi tramite un percorso che conduce all’utopia. Ed è proprio da questo presupposto che nasce l’attitudine a fare battaglie univoche, a considerare gli uomini come privilegiati che hanno già tutti i diritti e a legiferare in senso positivamente discriminatorio (come nel caso delle quote rosa o dei centri antiviolenza per sole donne). Bisogna però ricordare che, seppur nella società patriarcale gli uomini avevano il potere formale, le donne hanno sempre goduto di un potere informale che nella storia dell’umanità (o meglio nelle società patriarcali che sono esistite) fu rilevante. Ed è proprio in questi termini che oggi si scrive di critica al femminismo e, caso strano, è proprio con chi si pone, secondo questi termini, al di fuori del femminismo che viene ostracizzato.
Di recente Marco Crepaldi, il democristiano della narrazione maschile, ha scosso la sua schiera di follower per delle prese di posizione che hanno confuso non poco il mondo della manosfera italiana. Tra queste, spicca la sua adesione alle misure di discriminazione positiva dette “quote rosa”. Questa presa di posizione non avrebbe mai scosso se a dichiararla fosse stata una femminista. Il punto è che Crepaldi si autodefinisce non femminista. La domanda sorge spontanea, ma Marco Crepaldi, per parlare pubblicamente di cosa sia o non sia femminismo e per prendere delle posizioni collocandosi poi, ideologicamente parlando, in contrasto con esse, si è mai confrontato con gli autori della critica al femminismo? Nessuno pretende che faccia una diretta con Warren Farrel e certo sarebbe carino un confronto con Fabrizio Marchi o Santiago Gascó Altaba, ma a prescindere da queste due ipotesi sarebbe invece opportuno da parte di Crepaldi leggere questi autori ed elaborare le questioni sollevate, giusto per evitare queste débacle filosofiche che ne dimostrano la totale impreparazione (e forse anche il principio opportunistico che lo conduce a compiere queste gesta cerchiobottiste). E a questo punto si dovrebbe chiedere a Crepaldi che cosa intenda lui per femminismo e come mai lui se ne collocherebbe al di fuori. O dentro. Chissà…