Si è ancora in attesa di capire cosa ne sarà dell’orrido DDL Zan. L’unica cosa certa è che, se fosse vigente, ciò che segue nel presente articolo varrebbe probabilmente la carcerazione per l’autore. Dunque vale la pena dire tutto, finché si può. Anche perché, annegate nell’orgia dell’antiviolenza di professione, scatenata attorno al 25 novembre, alcune notizie rilevanti potrebbero essersi perse, ed è giusto recuperarle perché danno un quadro chiaro e anticipato del mondo che una risibile minoranza, identificata nel movimento queer, sta apparecchiando per tutti noi, grazie anche alla sua temporanea e traballante alleanza con il femminismo. La prima è da vero raccapriccio, per ciò che è e per come è stata data: il cantante Ricky Martin, dopo aver affittato già altre quattro volte l’utero di qualche donna sfruttata, ha deciso di fare cinquina. Quando si dice che perseverare è diabolico… E come comunica la sua intenzione questo multiplo “Genitore 1”? Dicendosi emozionato perché da qualche parte “ci sono due embrioni che mi stanno aspettando“. Praticamente due vite possibili vissute e trattate come un paio di birre o di pizze che a breve si andrà ad acquistare. Un approccio di una volgarità e di una bassezza ributtanti. Anche perché il caliente cantante sudamericano dimentica che ad attenderlo c’è anche una donna da cui comprerà l’ovulo e un’altra da cui comprerà il ventre e il silenzio, quando il neonato le verrà immediatamente portato via. “Livin’ la vida loca” (vivere la vita pazza) cantata da Martin tempo fa ora ha un senso. Il grave è che si vorrebbe che tutti noi lo condividessimo come normale.
Anche perché se si decide di non condividerlo, di sollevare dubbi, perplessità, contrarietà, si finisce male, molto male. Si segue un processo consolidato: etichettatura e ostracismo. La prima è cosa nota: omofobo, transofobo, lesbofobo, basta che qualcuno appiccichi addosso uno di questi bollini e già si può iniziare il conto alla rovescia per la fase successiva, quando si verrà esclusi da piccole comunità progressiste e moderne, con il massimo dell’onta. O si verrà bullizzati e mobbizzati a tal punto da decidere di allontanarsi di propria sponte. L’ultima che ha vissuto il “trattamento queer” è Chiara Pelagotti di Firenze. Nella scuola elementare Marconi, frequentata dai suoi due figli di 8 e 10 anni, spunta il tipico laboratorio “esterno”, cioè non gestito direttamente dalla scuola e dai docenti, ma da sedicenti “esperti”. Che piazzano un corso dal titolo che, dai su sinceramente, non può non piacere: “A scuola per fare la differenza”. Con questo nome sarà un corso integrativo di educazione civica? Di uso responsabile di internet e dei social network? Un divertente laboratorio linguistico, magari? Certo che no. A guardare la brochure illustrativa si scopre che è un corso contro il “bullismo omofobico”. Il suo scopo dichiarato: “Individuare gli stereotipi di genere presenti in fiabe, racconti, personaggi dei cartoni animati, giocattoli, mass media e nella realtà della vita quotidiana, in base quindi a come e quanto sono diffusi nel contesto culturale di appartenenza”. Pura teoria queer applicata là dove quell’ideologia auspica da sempre di poter mettere le manacce: nei cervelli di bambini che nulla sanno di sesso, inclinazioni sessuali e stereotipi. Ciliegina sulla torta: chi sono “gli esperti”? Un pool di psichiatri, un team di sociologi, una équipe di pedagoghi? Nient’affatto, gli esperti sono gli aderenti di “IREOS Onlus – Centro Servizi Autogestito Comunità Queer”, un’associazione di settore tra le tante, ma affamata di soldi pubblici e di proselitismo infantile.
Questo è il rispetto per i diritti umani di ogni persona?
È legittimo che un genitore voglia vederci chiaro. Ma questa gente lavora nell’oscurità. Infatti: “Ho cercato di capire di cosa si trattasse e ho chiesto alla scuola il programma, che non mi è mai stato fornito”, racconta mamma Chiara. “Credo che per affrontare temi come la fluidità di genere sia ancora troppo presto. Magari sbaglio, ma lasciatemi il diritto di decidere sull’educazione dei miei figli”. No gentile Chiara, non sbagli affatto, anzi sei nel giusto due volte: all’aspetto educativo va infatti aggiunto quello didattico. Perché il corso queer non è stato proposto come integrativo ed extracurricolare, ma in sostituzione della didattica normale. E chi non aderisce, tiene i bambini a casa. Preziose ore di istruzione perse per compiacere lorsignor*, insomma. Cose che Chiara ha fatto notare, venendo subissata, specie sui social, da insulti e accuse di omofobia. Leggete bene le sue parole e dite sinceramente se non mettono i brividi: “credevo fosse ancora possibile avere un punto di vista diverso dalla massa sull’educazione dei propri figli senza dover essere etichettata e attaccata con tale cattiveria”. Non manda un orribile odore di regime questo insieme di parole? Non sembra l’antipasto di una tirannia in arrivo, dove la scuola e le istituzioni negano il primato alla famiglia per incanalare i giovani in un pensiero predeterminato? E soprattutto non sembra anche a voi di sentire aria di persecuzione se non de jure quanto meno de facto verso chi non si allinea? Per noi sì, appare evidente da fatti di cronaca come questo, ma anche dalle foto di pagine di libri scolastici elementari che mettono i brividi. La pervasività di questa ideologia verso le nuove generazioni è tentacolare, e va fermata ad ogni costo.
Ma perché va fermata? Perché siamo omolesbobitransofobi? No, perché gli esiti a cui quella strada conduce sono al di fuori al di fuori di ogni ragionevole sostenibilità, fino a tracimare non di rado nell’aberrazione. E perché su quella strada una risibile minoranza sta obbligando a camminare l’intera comunità. L’esempio ci viene dal Regno Unito (ma a breve anche su questi schermi…). Freddy McConnell, una persona nata donna, nel 2013 comincia la sua transizione verso il maschile imbottendosi di testosterone. Nel 2014 si fa rimuovere chirurgicamente il seno. Nel 2017 sospende la propria terapia di transizione per riuscire a essere messa incinta e nel 2018 partorisce un bambino, dopo di che riprende le terapie (del fortunato inseminatore nulla si sa… N.d.A.). Con tutta questa giostra alle spalle, Freddy ritiene di avere il diritto che lo Stato lo registri come il “padre” del neonato, ma i giudici gli hanno detto no: “prevale il diritto di un bambino nato da un genitore transgender di conoscere la realtà biologica della sua nascita rispetto al diritto del genitore di essere riconosciuto nel certificato di nascita con il genere che preferisce”. Una cannonata sparata dal buon vecchio e sano pragmatismo anglosassone in faccia alla follia queer. Perché il/la signor* Freddy ha il pieno diritto di giocare all’allegro chirurgo con il proprio corpo e la propria psiche, se proprio lo ritiene, ma la biologia resta quella che è e nei labirinti mentali di un adulto sicuramente problematico non può e non deve entrare un fanciullo inconsapevole. Con ciò è improbabile che quel giudice (nominiamolo, perché lo merita: Lord Burnett) farà più carriera, se ancora ne ha da fare. Il problema è che non tutti nella società siamo nella posizione di un giudice inglese. La maggior parte di noi sono mamme e papà, costretti a diventare profughi sociali, com’è capitato a mamma Chiara, o disoccupati come questa barista definita “omofoba” e licenziata perché non ha voluto indossare una maglietta arcobaleno. A costringerli è questa follia minoritaria, che per di più si vuole blindare a norma di legge. E davanti ad aperitivi di questo genere, relativi a un pasto che sta arrivando, la domanda, ossessiva e petulante, resta la stessa: davvero a voi tutto questo va bene? Davvero ritenete che questa roba rappresenti il rispetto per i diritti umani di ogni persona a prescindere dal proprio orientamento sessuale? Sicuri sicuri?
P.S.: al contrario di tutte le notizie di attacchi omofobi pubblicate nei mesi scorsi, le notizie riportate in questo articolo, sono tutte VERE.