di Roberta Aledda. “Prof. ma quando facciamo lezione di persona? Quando ci vediamo dal vivo nuovamente?”, è la frase che da un mese accompagna le mie giornate in FAD (formazione a distanza). E ogni giorno mi commuove come se la sentissi per la prima volta, come se non avessimo già passato momenti di didattica online e settimane di chiusura forzata tra le mura di casa. Nessuno tiene la webcam accesa, la linea è intasata e non reggerebbe quel carico di immagini, più la condivisione dello schermo e il microfono acceso di tutti. Allora mi ritrovo a fissare la mia immagine che parla ai loro avatar: qualcuno ha la propria foto, altri hanno immagini da cui si sentono rappresentati, altri la semplice iniziale del proprio nome. Si inizia con l’appello e la compilazione del registro elettronico, i ragazzi accendono il microfono giusto il tempo per dire “presente” poi il silenzio. Inizia una nuova lezione ed un nuovo giorno in cui perdo la possibilità di guardargli negli occhi.
Non so se dietro lo schermo loro ci sono davvero, per quanto ne so potrebbero essere connessi ma essere altrove. In realtà, al contrario di quel che si pensa, sono molto sinceri e, a dispetto della registrazione, dicono tutto: “prof. vado un attimo in bagno”, “prof. oggi sono sotto le coperte”. Hanno il mio stesso identico bisogno di condividere se stessi, di manifestarsi a me e ai compagni per sentirsi vivi, per provare a dare un senso ad una didattica povera e vuota. Non c’è educazione, non c’è formazione senza la relazione. Non esiste crescita senza un confronto con l’altro e la possibilità di scoprirsi simili o totalmente diversi “dall’altro da sé”. Ma di necessità virtù e allora provo insieme a loro a creare uno spazio in cui insieme cresciamo, affrontiamo le difficoltà legate alla tecnologia e alla distanza fisica, costruiamo mattoncino dopo mattoncino un percorso utile per il loro futuro professionale e personale.
“E allora perché voi non ci capite?”.
Avrebbero dovuto iniziare il loro stage agli inizi di novembre, lo scorso anno l’hanno saltato del tutto. Sono arrabbiati, delusi, spaventati. L’emergenza sanitaria non ha tolto loro solo la libertà, li sta privando di tutte quelle esperienze che a noi sono state concesse e possibili: le risate con i compagni, le cotte non ricambiate, le sigarette in bagno, balzare la scuola e andare a zonzo per Milano, i litigi con gli insegnanti, copiare e suggerire durante le verifiche. Una quotidianità spezzata, e per molti, mai iniziata. Ma non sanno dire di avere paura, da adolescenti manifestano il loro disagio attraverso la rabbia e la ribellione, costruendo muri dietro cui nessuno vede la loro fragilità e dai quali non possono vedere il dolore altrui. Aggrediscono perché le urla sono comunque meglio di un silenzio assordante, attaccano perché lo scontro è meglio dell’assenza di relazione.
In questi mesi si è sentito dire di tutto sui giovani: sono incoscienti perché in barba al pericolo non mantengono le distanze e non indossano le mascherine, tutti ammassati in discoteca a passarsi di mano in mano cocktail e sigarette, untori che vanno in giro per il mondo tornando a contagiare i propri familiari anziani. Non ne possiamo fare a meno: ci piace troppo scaricare le nostre debolezze e incapacità sulle nuove generazioni. Se la responsabilità è di un’altra categoria noi, buoni e giusti, siamo salvi. “Ho paura anche io, ragazzi. Come voi sono arrabbiata perché non mi sento più libera, ho paura di ammalarmi, di contagiare la mia famiglia. Sono stufa di fare lezione a distanza e mi infastidisce non poter più andare a cena nel mio ristorante preferito. Ma la verità è che anche io me la faccio sotto dalla paura”. Silenzio per qualche secondo poi Federico accende il microfono e dice: “e allora perché voi non ci capite?”.
È ora il momento di essere madri e padri forti.
È vero. Noi, intesi come adulti, non stiamo capendo i danni che la pandemia sta creando nei nostri figli e che le conseguenze non saranno né lievi né a breve termine. Siamo troppo presi a far quadrare i conti di attività e famiglia, a contare i morti e i numeri delle terapie intensive, a puntare il dito contro il vicino di casa che butta la spazzatura senza mascherina, ma ci stiamo perdendo i segnali di disagio che i ragazzi ci inviano. Stiamo chiedendo loro un’assunzione di responsabilità che per età non gli spetta, ci aspettiamo che abbiano una maturità piena che invece dovrebbe arrivare gradualmente, col passare degli anni e delle esperienze. Pretendiamo che agiscano un ruolo adulto perché siamo inadeguati e non pronti a gestire e accogliere le loro fragilità e paure, che poi in fondo, sono le identiche alle nostre.
È in questi momenti che la famiglia e i ruoli di padre e madre giocano una partita fondamentale. Avere uno spazio relazionale protetto in cui ci siamo sentiti liberi di sperimentare e sbagliare, ci ha permesso in passato di crescere e diventare gli uomini e le donne che siamo oggi. Questo stesso spazio dobbiamo sforzarci di crearlo, mantenerlo e preservarlo anche nelle attuali condizioni per aiutare le nuove generazioni a svilupparsi in maniera quanto più possibile equilibrata e sana. Questo non significa essere infallibili e non commettere errori. È difficile essere padri e madri in epoca di coronavirus perché somma incertezze nuove a quelle già esistenti e smuove, dentro ciascuno di noi, emozioni vecchie com’è vecchio il mondo: la paura della morte e la tensione estrema verso la sopravvivenza. Ma questa non può essere una giustificazione: abbiamo comunque il dovere di prenderci cura l’uno dell’altro, di aiutare i nostri figli a trovare un loro posto nel mondo. È ora il momento di essere madri e padri forti, che forti non significa privi di paure ma onesti, in primo luogo con noi stessi e poi con i nostri figli. È ora il momento di coltivare la coesione e proteggere quel nocciolo duro che sta alla base di ogni famiglia: l’amore per i nostri cari.