La Fionda

Il divario salariale di genere, i suoi trucchetti ed omissioni

Nella narrazione corrente e comunemente accettata da politica e media, la questione del divario retributivo di genere occupa un posto d’onore. Tramite l’informazione, sia scritta che trasmessa, questo divario retributivo viene raccontato come una diffusa differenza di trattamento salariale in base al genere. In parole povere “ti pago di più se sei uomo e ti pago di meno se sei donna”, quella che si direbbe una vera ingiustizia. Risulta infinita (nel vero senso della parola) la quantità di articoli, programmi e riferimenti vari nei media che denuncia questo fenomeno. Si pensi a La Repubblica quando affermava che: “a parità di lavoro con un collega uomo, in Italia è come se una donna cominciasse a guadagnare dalla seconda metà di febbraio”, o quando la rivista Io donna scriveva in un suo articolo che: “In parole semplici significa che due persone, a parità di inquadramento e funzione lavorativa, hanno retribuzioni diverse solo perché una è uomo e l’altra è donna”. Eppure è noto a tutti che nel nostro paese esistono una Costituzione e delle leggi in base alla quali un trattamento del genere da parte di un datore di lavoro non dovrebbe essere permesso. Nonostante ciò sono decenni che si denuncia quest’ingiustizia, non certo tra le chiacchiere da bar o nei siti di fake news, ma su media che dovrebbero prendere in considerazione studi statistici ufficiali. La domanda sorge quindi spontanea: è vero che esiste un divario retributivo tra uomo e donna? C’è una mala tendenza a pagare di meno le donne? Per cercare di fare chiarezza sulla questione, occorre vedere nel dettaglio cosa si intenda per divario retributivo e come si arrivi a parlare di stipendi diversi a parità di mansione.

Cosa si intende ufficialmente per “divario retributivo di genere”? Nella definizione utilizzata nella seguente pagina ufficiale dell’Unione Europea, si può leggere che: “Il divario retributivo di genere nell’UE si attesta al 14,1% ed è cambiato solo in minima parte nell’ultimo decennio. Significa che le donne guadagnano in media il 14,1% in meno all’ora rispetto agli uomini”. Quindi per divario retributivo viene inteso un dato ben preciso che non è una differenza di stipendio a parità di mansione ma il divario retributivo medio. Ma cos’è e come si ottiene la retribuzione media? Essa è banalmente la media ottenuta dividendo il monte stipendi per la totalità dei lavoratori. Nel caso delle ricerche sul divario retributivo di genere, ciò che viene fatto è quindi il confronto tra la retribuzione media maschile e quella femminile. Ma si tratta di un dato significativo? In realtà no. Alla luce di una differenza retributiva media non si ha infatti niente che provi un trattamento salariale differente a seconda del sesso. Viene soltanto dimostrato che la somma degli stipendi maschili divisa per il totale dei lavoratori è superiore alla somma degli stipendi femminili divisa per il totale delle lavoratrici. Ed è qui che arriva il bello: su questa base infatti le analisi ufficiali smettono di offrire dati analizzabili e oggettivi per passare a veri e propri “aggiustamenti” privi di qualsiasi dato o numero ufficiale a supporto della tesi.

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La prassi in queste analisi di ricerca vuole infatti che, dopo aver presentato cosa sia il gender pay gap (ossia il divario retributivo medio), si dica che esso va aggiustato in base ad alcuni parametri (molto arbitrari come vedremo) dando così vita al concetto di adjusted gender pay gap (divario retributivo di genere “aggiustato”). Questa prassi dell’aggiustamento è presente in tutte le ricerche statistiche sul divario salariale di genere. Citando ad esempio la pagina ufficiale irlandese sul pay gap si può leggere la seguente definizione: “La differenza tra la retribuzione lorda media dei dipendenti di sesso femminile e maschile è nota come “divario retributivo di genere” […] poiché non tiene conto di tutti i fattori che contribuiscono al divario, come differenze nell’istruzione, esperienza nel mercato del lavoro, ore lavorate, tipo di lavoro, ecc., viene ufficialmente definito come divario retributivo di genere non aggiustato“. La questione del divario di genere aggiustato è uno dei nodi centrali: si tratta di ciò che permette agli articoli capillarmente diffusi su vari quotidiani, blog e riviste, di affermare la qualsiasi sulla base del divario retributivo medio. Così il divario viene aggiustato in base a fattori che vengono ritenuti come contribuenti a esso, ma di fatto vengono presi in considerazione solo quei fattori che contribuiscono a supportare la narrazione che vuole le donne svantaggiate e gli uomini privilegiati.

Prendere quindi in considerazione anche i fattori che portano gli uomini a lavorare di più e più ore non sembrerebbe essere cosa gradita a questi “neutrali e onestissimi professionisti della ricerca statistica”. Che il monte stipendi maschile superi quello femminile dipende per lo più dal fatto che gli uomini ricevono pressioni sociali a lavorare maggiormente e per più ore, ma è questo necessariamente un privilegio? Soprattutto: come mai l’aggiustamento del divario retributivo di genere non tiene conto della differente pressione che uomini e donne subiscono da parte della società riguardo al guadagno e alla carriera? Come mai la ricerca e “l’aggiustamento” sembrano dimenticare che il barbonaggio e il suicidio per ragioni economiche sono due problemi tipicamente del genere maschile? Eppure esistono dati ufficiali che dimostrano l’importanza di questi fattori (importanti se si vuole davvero comprendere il fenomeno del divario tra stipendi medi): nel comunicato stampa di una ricerca dell’EU.R.E.S, che traccia l’andamento delle statistiche di suicidio in Italia dal 1985 al 2009, viene offerto un impressionante dato, ossia che il 90% dei suicidi commessi per ragioni economiche è maschile. Per quanto concerne il problema dei senzatetto invece, secondo una ricerca in collaborazione tra ISTAT, Ministero del Lavoro, Caritas e Fio.Psd, l’85% dei senza tetto in Italia è di sesso maschile.

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Certo è che, in una società dove i dati sul barbonaggio e sul suicidio dimostrano quanto gli uomini abbiano una forte pressione a guadagnare, sostenere che l’uomo sia privilegiato in ambito lavorativo ed economico sembra fuori contesto o quantomeno di parte. Probabilmente, se si tenesse conto di tutti quelli che sono gli aspetti della società e delle differenze di trattamento che uomini e donne subiscono, nessuno si sognerebbe di dire che gli uomini siano privilegiati rispetto alle donne in ambito lavorativo. Ma nonostante ciò sono sempre gli studi ufficiali sul divario retributivo a portare nuova linfa per comprendere quanto questa storia sia solo il risultato di un accurato cherry picking: ad esempio questa ricerca di Eurostat denuncia un gap presente nei ruoli di management (quindi di direzione), accusando così una disparità (tutta a vantaggio maschile) tra manager uomini e manager donne. Quello che non si comprende è come mai lo stesso gioco non venga fatto con i lavori più umili, faticosi e logoranti, dove gli uomini sono la maggioranza. Non è infatti un caso che (come si riscontra in questa ricerca della Vega Engineering basata su dati INAIL) gli uomini costituiscano più del 90% delle morti sul lavoro. Questo accade perché i lavori a più alto rischio sono appannaggio maschile.

È lecito chiedersi allora: se stiamo parlando di uguaglianza e parità, come mai tutte queste fantastiche ricerche statistiche non aggiustano la lettura del fenomeno anche in base al fatto che c’è un gap, questa volta tutto a svantaggio maschile, nei lavori pesanti e logoranti? Si è forse mai vista qualche campagna pubblicitaria per la parità nei lavori pesanti? Si è mai visto uno spot nel quale una donna si caricava in spalla una delle due travi portate da un operaio uomo, dicendo poi uno slogan del tipo “parità nei vantaggi come negli svantaggi”?  Sembra chiaro che il divario salariale di genere è uno degli argomenti di propaganda femminista più diffusi e strumentalizzati, ma proprio per questo sta diventando uno dei più facili da porre al vaglio critico. Quello su cui si dovrebbe riflettere è: come si deve sentire un operaio divorziato, con un reddito di 1200 euro al mese, con la schiena spezzata, che deve pagare alimenti e mantenimento e che non riesce più a vedere i figli, quando una donna gli grida in faccia che lui guadagna il 30% in più di lei? Non lo sappiamo, ciò che sappiamo è che ad essere realisti, cioè se guardiamo i dati sui suicidi e sui senzatetto, se un uomo perde il lavoro rischia letteralmente di perdere o la casa o la vita, le donne no. Si potrà quindi mai parlare veramente di privilegio maschile o bisognerà forse cambiare paradigma?



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