Diciamolo subito in premessa, in modo da sgombrare il campo da malintesi e strumentalizzazioni: quello avvenuto a Carignano (TO) tre giorni fa è a tutti gli effetti un “femminicidio”, stando alla definizione adottata dalle Forze dell’Ordine. Un uomo, Alberto Accastello, 40 anni, ha ucciso a colpi di pistola la moglie Barbara Gargano, 38 anni, i loro due gemelli di due anni Aurora e Alessandro, il cane di famiglia, per poi togliersi la vita. Una strage familiare che ha le sue radici nel rapporto andato deteriorandosi tra marito e moglie, sfociato nella richiesta di lei di separarsi. L’uomo si è allora armato e ha commesso il suo crimine. Nelle righe che seguono non è nostra intenzione giustificare il suo gesto che è e resta sempre inaccettabile e ingiustificabile. Quello che vorremmo fare è anzitutto cercare di capire, traendo le informazioni dai media, in quale contesto è maturata la decisione di Alberto, per poi provare a proporre qualche riflessione forse banale, ma forse anche utile, e infine anche una lezione valida per tutti.
Alberto era un agricoltore. Un mestiere difficile, faticoso, che impone spesso di vivere in un contesto di solitudine. Come ogni persona della sua professione, era capace di fare molte cose, compreso costruire, mattone su mattone, un edificio per sé e la propria famiglia, lavorandoci anche al sabato e alla domenica. Aveva concluso da poco la sua opera, ponendo le ultime pietre alla casa familiare, immersa tra i campi di mais, dove da poco si era trasferito con la moglie Barbara, commessa di supermercato, e i due gemelli, dopo aver vissuto a lungo nella casa del padre e dello zio di lui. Un bel salto di qualità, un sogno che si avvera, una casa tutta per sé, per la famiglia, costruita con le proprie mani. Un punto di arrivo e ripartenza, per Alberto, ma non per Barbara: dopo cinque anni di matrimonio e due figli, comincia a sentirsi oppressa, irrisolta, insoddisfatta. “Vivo in mezzo al nulla, non vedo mai nessuno”, diceva agli amici, secondo alcuni giornali. Quel nulla per Alberto invece erano le radici della propria famiglia e della propria esistenza. Una divaricazione difficilmente conciliabile.
L’azione tipica di chi è annichilito dentro.
Poche settimane fa Barbara aveva dunque annunciato ad Alberto la sua intenzione di separarsi. Alcuni giornali virgolettano questa frase, come se fossero parole sue al marito: “Il nostro matrimonio è finito. Mi sono innamorata di un altro uomo. Sono stufa di stare sola”. Tre frasi secche e semplici, che fanno crollare ogni mattone messo su da Alberto non solo nei muri appena cementati della casa familiare, ma anche in quella che con buona probabilità aveva edificato nella propria mente e nel proprio cuore. Un piccolo nucleo vibrante di certezza fatta di una vita tranquilla, di affetto e calore domestico, lavoro lavoro lavoro, i figli da crescere. Una felicità a tensione media ma costante, senza scossoni o incendi. Un piano di vita che accomuna tantissime persone alla ricerca di un contesto sicuro dove ripararsi rispetto a uno scenario generale che tende naturalmente al disordine e all’insicurezza. Ebbene quel piano di vita, che probabilmente Alberto visualizzava in mente proiettato fino al letto di morte in vecchiaia, si frantuma in tutta la sua interezza alle parole della moglie. Lei, riportano i giornali, per quanto poco possano valere le parole usualmente autoassolutorie di una persona che tradisce, si lamentava con l’amante del fatto che Alberto pensasse solo al lavoro. Proprio quel lavoro che probabilmente era per Alberto una missione per realizzare se stesso e mantenere la propria famiglia con agio. Ed ecco un’altra divaricazione estrema. Lo si può dunque immaginare, Alberto, dopo l’annuncio della moglie, attonito, a guardarsi attorno, ricordando ogni singolo momento della costruzione della casa, dal primo all’ultimo mattone. Per poi pensare: tutto inutile, tutto finito. Tutto è significato niente. Il piccolo nucleo di certezze pianificato assieme smette improvvisamente di vibrare e si disfa.
Così Alberto crolla. Smette di dormire, dimagrisce, macina la disperazione dentro di sé, senza trovare alcun supporto. Probabilmente sa che la separazione comporterà l’allontanamento dai due figli, l’attribuzione della casa appena costruita a Barbara e un destino da ospite di nuovo insieme al proprio padre e allo zio, a spaccarsi la schiena per l’assegno di mantenimento. La beffa dopo il danno, che aggiunge fiele alla mistura di disperazione e depressione in cui è caduto. Il mix è micidiale e va a intaccare il suo equilibrio mentale. Venerdì Barbara deposita i documenti della separazione, gli amici la descrivono come “tranquilla, quasi gioiosa”, un controcanto troppo forte per il mite Alberto (così lo descrivono quelli che lo conoscevano), che probabilmente nutriva qualche speranza di ripensamento. “Quando dico no, è no”, riportano i giornali che Barbara gli abbia detto. Nessun ripensamento, nessuna via d’uscita. Durante la notte Alberto chiama il fratello: “a breve non ci sarò più”, annuncia e chiude la telefonata. L’equilibrio è totalmente saltato, niente vale più niente e l’azione che ne segue è quella atroce e folle tipica di chi è annichilito dentro. Quel piccolo nucleo di certezze è ciò che ognuno cerca di costruire per sé e per chi ama, è quell’area che circoscrive la ristrettissima cerchia per cui si sarebbe anche disposti a morire. Quando quel nucleo si disfa, quando non c’è più niente e nessuno per cui dare la vita, allora si è già morti, e morto è già tutto ciò che sta attorno. Altro che senso di possesso patriarcale e maschilità tossica: è solo la meta di un percorso che termina nell’annichilimento, lo stato più pericoloso dove nulla vale più nulla.
Minimizzare le condizioni entro cui maturano le tragedie.
È possibile trarre una lezione da questa terribile vicenda? Forse sì. E la parola chiave è scelte. Barbara, cinque anni fa, sapeva che uomo fosse Alberto, quali i suoi progetti di vita? Sicuramente sì: difficile che Alberto abbia deciso autonomamente di costruire una casa in mezzo ai campi e vi abbia trascinato Barbara a forza. È certo che fosse una decisione condivisa. Se Barbara non era sicura che quel contesto fosse giusto per lei, se sentiva dentro di non condividere pienamente il piano concordato, perché non se n’è sottratta, magari ancor prima di contrarre matrimonio con Alberto? Perché non ha condiviso con lui i suoi dubbi, il suo legittimo bisogno di una vita più sociale e attiva, invece di cercarsi un amante e sbatterlo in faccia al marito, mostrandosi poi crudelmente euforica all’idea della separazione? E Alberto, dal canto suo, aveva valutato con attenzione il progetto di vita costruito con Barbara, si era assicurato con la massima profondità che fosse davvero condiviso? Quanto si è impegnato a conoscere le legittime ambizioni e la natura profonda della moglie, quanto si è mostrato disposto a un accordo pienamente soddisfacente per entrambi? Come si è accertato che la donna che amava condividesse in toto la prospettiva di una felicità bassa e costante, senza picchi né abissi, e come ha reagito percependo la crescente intima inquietudine della consorte, di cui non può non essersi accorto? Facile che abbia fatto finta di niente: troppo complicato cercare di capire, fin da prima del matrimonio e anche dopo, e tentare di avventurarsi davvero nel sentire profondo e articolato di una persona che si sceglie come compagna di vita.
Si tratta di questioni che attengono alle scelte fatte da entrambi, Alberto e Barbara, marito e moglie. Un probabile Everest di non detti o detti a metà, per pigrizia, per il quieto vivere, per superficialità, che alla fine si sono concatenati in un evento tragico e assurdo, che ora chiamano “femminicidio”, ma che con il dominio maschile e patriarcale in realtà non ha nulla a che fare. La mano armata che ha compiuto la strage è senza dubbio quella di Alberto, ma il “mandante” è la leggerezza con cui, da entrambi i versanti, si affrontano e si costruiscono le relazioni. Ognuno, bene o male, conosce se stesso, sa cosa vuole, cosa no e quali sono i margini di trattativa tra i due estremi. Quella trattativa viene troppo spesso trascurata, se non addirittura omessa, al momento di prendere decisioni importanti e vincolanti come sposarsi o fare figli. Sarebbe stato dovere di Barbara e Alberto guardarsi dentro, misurare il proprio amore reciproco e poi dirsi chiaro quali erano i propri punti vitali irrinunciabili, con sincerità e cruda trasparenza. Barbara avrebbe dovuto capire che Alberto era uomo che aspirava a una vita di lavoro tranquilla e sicura, senza fiammate; Alberto avrebbe dovuto capire il bisogno di vivacità e stimoli di Barbara. Se tutto questo fosse accaduto la tragedia si sarebbe evitata? Non si può dire per certo. Sicuramente si sarebbero minimizzate le condizioni in cui poi è maturata.
Una lezione amara per tutti.
La lezione di Barbara e Alberto (e di Alessandro e Aurora), se c’è, è dunque questa: fare scelte vincolanti richiede che prima ci si invada reciprocamente, dopo essersi aperti all’altra persona. Occorre che l’uno possa scandagliare e fare luce nell’animo dell’altro e che ognuno esibisca con cruda sincerità la propria visione della vita e del futuro, senza timori o imbarazzi, accettando che l’altro possa scegliere di non procedere. L’importante è che ciò avvenga prima che i piani vengano stesi e realizzati, che altre vite vengano coinvolte, che nascano aspettative troppo grandi perché il loro crollo possa essere gestito con facilità. Il possibile mandante di questa strage, e di chissà quante altre ancora, non è dunque l’incapacità di una delle parti di gestire l’abbandono o la separazione, che pure avrà avuto un peso, ma anche (se non soprattutto) la paura avuta agli albori della relazione di passare la vita da soli o di perdere un affetto appena costruito, nonché la pigrizia e la conseguente superficialità con cui si costruiscono rapporti sulla base di accordi al ribasso estremo o colmi di istanze non espresse. Uno scenario intimo e complesso, difficile da inquadrare e spiegare, e anche per questo la comprensione ci viene facilitata dalla formula spiega-tutto del “femminicidio” e dell’uomo che di punto in bianco perde la brocca, chiavi di lettura che però non spiegano e non insegnano un bel nulla (anzi). Quella di Barbara e Alberto, nella sua profondità reale, è e deve essere invece una lezione amara da cui tutti, uomini e donne, dovrebbero imparare e che tutti dovrebbero tenere a mente, nel momento in cui si accingono a fare scelte vincolanti per sé e per altri.