I non addetti ai lavori pensano che pubblicare un articolo scientifico sia cosa semplice: uno stimato docente universitario scrive il suo pensiero, o la sua ricerca, riguardo a un argomento e presenta il frutto del suo lavoro a una rivista o a una casa editrice. Quest’ultima, onorata di ricevere tanta saggezza in un file, pubblica ipso facto lo scritto così come è. Ma le cose non funzionano in questo modo. Si vada per gradi. Solitamente le pubblicazioni scientifiche (questo termine è usato per tutte le categorie di ricerca nello scibile umano) servono per portare a conoscenza del mondo accademico, e non solo, ogni tipo di studio effettuato: si presentano articoli che parlano di nuove scoperte, scritti che presentano nuove idee riguardo a argomenti già esistenti oppure si prosegue nel solco di studi già fatti esponendo nuove possibilità di ricerca. Chi si dedica a questo tipo di lavoro sono, tra gli altri, i vincitori di borse di studio, che alla fine del percorso devono presentare un elaborato. Solo dopo il benestare del professore, il testo può essere presentato per la pubblicazione.
Un redattore inizia allora la revisione dei pari (in inglese peer review), indispensabile per alzare gli standard degli elaborati e per verificare se lo scritto sia idoneo alla pubblicazione. In questo frangente si controlla anche che non vi siano errori, imprecisioni e che l’elaborato sia omogeneo e discorsivo. Altro fattore di controllo sono i pregiudizi cognitivi che possono inficiare l’opera: ogni lavoro intellettuale passato attraverso questo tipo di revisione, oltre che migliorarlo, può far emergere degli errori o delle debolezze che solo un altro studioso può facilmente individuare e segnalare all’autore. Ogni redattore fornisce una votazione del lavoro revisionato e include anche valutazioni specifiche e comunicazioni che vengono inviate all’autore: il lavoro è accettato senza riserve; il lavoro è accettato ma vi sono delle migliorie da apportare; il lavoro viene respinto e se ne consiglia una revisione per poi essere riproposto; il lavoro è respinto. Chiunque si sentirebbe di dire, dopo questa lunga premessa, che gli articoli scientifici sono a prova di bomba, intellettualmente parlando. Se uno o più esperti vigilano sulla qualità di un elaborato si presume che i requisiti e la novità che arreca al panorama culturale siano notevoli. La risposta è no, anzi.
Postmodernisti e strutturalisti al servizio del queer e del femminismo.
Un docente americano ha provato a verificare la tenuta di questo sistema dopo aver riscontrato la pubblicazione di svariati articoli sugli “studi di genere” da lui ritenuti poco seri. Nel biennio 2017-18 Peter Boghossian, con l’aiuto di James A. Lindsay e Helen Pluckrose, due borsisti suoi complici, ha provato a far pubblicare svariati “elaborati scadenti” su diverse riviste specializzate in sottocampi specifici, cioè femminismo, razze, sessualità, queer e studi culturali e sociologici. Su una ventina di articoli presentati per la revisione dei pari, 4 l’hanno superata e sono stati pubblicati (uno di essi ha vinto anche un premio), 3 sono stati accettati ed erano in attesa di pubblicazione, 6 respinti e gli ultimi 7 erano in revisione. Gli articoli promuovevano idee totalmente assurde, volutamente fuorvianti e con l’incitamento ad atti devianti.
Il tenore degli articoli dati alle stampe variava dai consigli agli uomini su come ridurre la transfobia mediante la penetrazione anale con surrogati sessuali, la dedizione dei cani alla cultura dello stupro e una versione femminista del “Mein Kampf” di Hitler. Il contenuto degli scritti avrebbe dovuto allarmare in qualche modo i revisori ma, dati i temi trattati, essi venivano definiti studi sui reclami una sottocategoria degli studi accademici in cui si mettevano in evidenza le lamentele sociali rispetto alla verità oggettiva, cioè un modo di sovvertire il comune senso del giudizio tramite le tossiche teorie gender. Esse si sviluppano partendo dal presupposto di un reclamo su una affermazione scientifica, anche ben radicata, che viene piegata tramite teorie, a volte strampalate, disposte a confermare un avvenuto cambiamento. Ciò è possibile attraverso gli studi postmodernisti e strutturalisti che sono in grado di adempiere alle agende dei vari programmi queer e femministi.
Si possono creare frodi o idee assurde.
Questi tipi di indagine si sono affermati sulla scena internazionale a partire dalla seconda metà del Novecento ed includono quasi tutte le categorie di ricerca, da quelle umanistiche a quelle più scientifiche. La maggioranza degli esponenti di questo tipo di pensiero sono francesi: Lacan, Deleuze, Guattari, Latour, Baudrillard. Essi si avvalgono nei loro scritti, abusandone, di concetti provenienti da altre fonti: ad esempio utilizzano una terminologia scientifica o pseudoscientifica senza tenere conto del reale significato tecnico (ad esempio l’abusatissima parola “resilienza”). Abbonda anche l’utilizzo di termini tecnici dove non andrebbero impiegati, trucco più che consolidato per mettere in soggezione lettori inesperti e matricole, e anche la manipolazione di parole e frasi in modo da rendere il discorso altisonante e apparentemente rigoroso, ma totalmente privo di significato. L’idea di questa particolare “bufala” venne in mente al professor Bohossian da un precedente “scherzo scientifico” eseguito nel 1996 dal professor Alan Sokal e, in entrambi i casi, ha creato nel mondo accademico un notevole sconvolgimento perché si dimostra che gli scritti delle pubblicazioni scientifiche sono facilmente manipolabili e hanno un sicuro effetto presso il pubblico, universitario o meno, se queste rientrano negli studi culturali postmoderni.
Questi due tentativi di porre il mondo accademico dinnanzi alle follie di teorie che con il tempo si sono, purtroppo, affermate fanno comprendere appieno come il post modernismo applicato sostituisce tutti gli approcci possibili alla cultura. La teoria del queer, della critica della razza, l’intersezionalità, il femminismo estremizzato, gli studi di genere attraverso gli studi dei reclami hanno avuto una via d’ingresso privilegiata nel mondo della ricerca, portando avanti la sistematica distruzione del concetto liberale di giustizia sociale. Sia nel caso di Sokal che in quello di Boghossian il mondo universitario ha reagito in modo opposto: chi chiedeva il licenziamento dei docenti per aver messo in ridicolo l’università e il mondo accademico della ricerca e chi, invece, ha difeso i due esperimenti per aver reso chiaro il limite scientifico degli studi. Oltre a questo verrebbe da pensare che molte delle borse di studio elargite presentano una grossa caduta di qualità dato che puntano, per lo più, su ricerche nel campo degli studi sui reclami e in questo modo si possono creare frodi o idee assurde che la revisione tra pari non è più in grado di rilevare e rimuovere.