Come intentare una causa per ridurre l’assegno di mantenimento, vincerla vedendo riconosciute le proprie istanze, e pagare più di prima. Tribunale di Matera: nel 2017 il signor Filippo e la signora Arianna (nomi di fantasia)si separano. Filippo gestisce una cartoleria e tiene corsi di ballo presso un’associazione, mentre Arianna non lavora. La signora chiede 1.500 euro oltre alle spese straordinarie scolastiche, sportive e ricreative per il figlio che ha meno di due anni. Per battere cassa il figlio è già un giovanotto, probabilmente servono soldi per la scuola di musica, il corso di inglese, la squadra di basket. Però per le modalità di frequentazione il figlio è piccolissimo, la madre “concede” al padre di vederlo dalle 10,30 alle 13,15 il lunedì ed il mercoledì.
Per motivare la separazione compaiono i soliti comportamenti autoritari del marito che tarpano le ali alla signora e le provocano “grave turbamento emotivo” (testuale) per cui è costretta: a) a ricorrere alle cure di una terapista; b) ad allontanarsi dalla casa familiare portando con sé il figlio ed escludendo il padre dal percorso di crescita del piccolo. Non ha mai permesso che padre e figlio mangiassero o dormissero insieme. I provvedimenti ridimensionano le pretese di Arianna: 200 euro per lei e 300 per il bambino, frequentazioni padre-figlio due pomeriggi a settimana dalle 16 alle 19 e due weekend al mese dal sabato pomeriggio alle 20 della domenica, Natale, Pasqua, vacanze estive. Tuttavia il giudice assegna ad Arianna la casa familiare, dalla quale si era volontariamente allontanata, e concede al padre 48 ore per andarsene. 48 ore, nemmeno uno sfratto esecutivo per morosità.
Una misura punitiva nell’immediato ed intimidatoria per gli anni a venire.
Filippo comunque è soddisfatto, paga il giusto e vede il figlio molto più di quanto l’ostracismo della moglie gli aveva fatto temere. Poi dopo un paio di anni arriva il tracollo economico: crisi nera, la cartoleria diventa un pozzo senza fondo di debiti e Francesco è costretto a chiuderla, inizialmente limita i danni con le lezioni di danza ma il coronavirus che chiude le palestre mette la parola fine anche a quella minima fonte di reddito. Nel frattempo Arianna ha terminato un corso formativo da estetista e lavora come manicure e nail-stylist. La situazione si è capovolta: lei ha un reddito, lui non più. Alla luce della nuova realtà dei fatti vanno riviste le misure economiche alla quali Filippo non è oggettivamente in grado di far fronte. Fermo restando l’assegno per il figlio, chiede al tribunale almeno di revocare i 200 euro per la moglie.
Nel luglio 2020 arriva la sentenza: riconosciute le oggettive motivazioni di Filippo e la nuova situazione lavorativa di Arianna, viene eliminato l’assegno di 200 euro alla moglie. Finita qui? No: viene aumentato a 450 euro l’assegno per il figlio, più altri 100 euro di contributo per l’abitazione ove il figlio vive, voce che prima non esisteva e neppure risultava tra le richieste materne. In sostanza Filippo prima della causa versava 500 euro complessivi ma ha dovuto ricorrere in tribunale poiché non era oggettivamente in grado di versarli, vince la causa e riceve il riconoscimento delle sue ragioni ma gli viene imposto di pagarne 550. Oltre al pagamento delle spese processuali in favore di Arianna, pari a circa 5.000 euro. Solitamente le spese si compensano, invece questo ulteriore accanimento ha il sapore di una misura punitiva nell’immediato ed intimidatoria per gli anni a venire.
Non è facile nemmeno essere l’avvocato di un padre separato.
Il metamessaggio per le occasioni future: paghi una somma ma per motivi oggettivi e documentati non sei più in grado di pagarla? Non ti azzardare a chiedere una riduzione, perché verrai punito. Se proprio fossero inattaccabili i motivi della riduzione questa ti verrà concessa, ma sappi che verrà comunque trovato il modo di farti pagare più di prima. E visto che non hai soldi, dovrai pagare pure le spese processuali, così ti levi il vizio di rompere le scatole ai tribunali. Questa è la giustizia a Matera, Italia, 2020. Abbiamo interpellato l’avvocato Luciano Natale Vinci, legale del Sig. Filippo. Nell’ascoltarlo si percepisce una rabbia sopita e mascherata da delusione, quindi abbiamo fatto nostre le sue perplessità: c’è una logica nelle decisioni di certi tribunali? E se c’è, qual’è?
L’avvocato Vinci in teoria dovrebbe essere un professionista soddisfatto: ha depositato degli atti inappuntabili, ha rappresentato la situazione in maniera perfetta, ha citato i precedenti giurisprudenziali giusti, ha argomentato con perizia e con passione e infine ha visto premiato tanto lavoro: le istanze del suo assistito sono state accolte, ha vinto la causa. Ma la soddisfazione professionale entra in conflitto con la sentenza odivaga e ne viene mortificata. Com’è possibile spiegare al cliente che ha vinto la causa per pagare meno, ma alla fine deve pagare più di prima? Come spiegargli che il giudice ha riconosciuto la sua oggettiva impossibilità di versare quanto prima, quindi lo condanna a versare una somma più alta? Non è facile essere un padre separato, ma non è facile nemmeno essere l’avvocato di un padre separato.