Donald Trump va alla guerra contro l’antifascismo fascista, l’inclusivismo escludente, il razzismo razzista, il femminismo e il genderismo (tutte facce della stessa patacca). E lo fa coraggiosamente, poco prima della nuova tornata elettorale per le presidenziali. Risale a fine settembre infatti il suo “Executive Order on Combating Race and Sex Stereotyping” (ordine esecutivo sulla lotta alla stereotipizzazione in base alla razza e al sesso), una disposizione obbligatoria che sta gettando lo scompiglio tra tutte le anime belle americane del politicamente corretto, nella quasi totalità appartenenti all’area del Partito Democratico. L’ordine sembra una risposta ai turbamenti suscitati dal movimento “Black lives matter”, ed è una risposta ragionevole, sensata, fondata, dunque deflagrante per chi vive di mitologie o ideologie. Così l’Ordine presidenziale definisce la stereotipizzazione in base alla razza e al sesso: “ascrivere tratti caratteriali, valori, codici morali ed etici, privilegi, status o credenze a una razza, o a un sesso, o a un individuo a causa della sua razza o sesso”. Chiunque prenda soldi federali e metta in atto questo tipo di stereotipizzazione, dice l’Ordine di Trump, non beccherà più un dollaro, e se si tratta di istituzioni formative, i suoi titoli di studio non verranno più riconosciuti.
Perché una disposizione del genere è deflagrante? Per due motivi. Anzitutto non è declinata secondo nessuna tipizzazione minoritaria, ma è ispirata alla più rigorosa uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Non a caso l’Ordine menziona il famoso “I have a dream” della prolusione egualitaria pronunciata da Martin Luther King nel 1963. Cioè non dice che alcune razze, oppure un sesso specifico devono meritare più protezione di altre. Molto pragmaticamente dice: tutti. Banale, si dirà, eppure corrisponde a qualche centinaio di megatoni sganciati su un sistema di pensiero che ormai dava per scontata l’esistenza di alcune categorie “più uguali” di altre. Con questo ordine, per fare un esempio, se un’organizzazione federale (o che prende soldi dal governo centrale) vuole risorse, non potrà produrre o diffondere materiale dove si dica che determinati individui sono razzisti, sessisti o oppressivi in quanto maschi bianchi ed eterosessuali. Se lo farà, metterà in atto una stereotipizzazione di razza o di sesso e non vedrà più il becco di un quattrino. Perché, questa è la ratio, il contribuente deve poter sapere che i soldi di tutti vengono usati per tutti indistintamente, senza fare alcun tipo di distinzione o discriminazione, senza diffondere idee stereotipizzanti e infondate. In sostanza quello che fa Trump è disarmare i “social justice warrior” girandogli contro, con una mano, la loro stessa arma, e tenendo la Costituzione con l’altra. Scacco matto.
L’infima la caratura delle proteste dei campus USA.
Il secondo aspetto notevole riguarda il mondo accademico e universitario, la roccaforte assoluta del politicamente corretto in tutte le sue più articolate e folli varianti. Sì, perché l’Ordine governativo vale anche e soprattutto per gli enti formativi, che prendono soldi dallo Stato federale sia direttamente che indirettamente, attraverso i prestiti concessi agli studenti per pagare le rette. L’ordine diventa così un vero e proprio regolamento di conti con i campus. Da adesso qualunque corso in “gender studies” che promuova la teoria del patriarcato, intesa come “un sistema sociale ingiusto che subordina, discrimina o opprime le donne”, dove gli oppressori sono i maschi come classe e le vittime sono le donne come minoranza, risulterà colpevole della stereotipizzazione prevista dall’Ordine presidenziale, con conseguente taglio dei fondi e non riconoscimento del titolo di studio. In risposta a chi strillava “defund police” (togliere fondi alla polizia), Trump impianta insomma una trappola per togliere risorse a chi da decenni radica nelle nuove generazioni le falsità insite in quelle che negli USA vengono chiamate “identity politics and critical race theory”, fonti ideologiche della criminalizzazione sistematica e infondata dell’uomo bianco ed eterosessuale. Le proteste si sono levate subito dai campus americani, vere e proprie mobilitazioni, che però non riescono a “bucare”: con che credibilità i portabandiera contro gli stereotipi possono contestare un Ordine presidenziale che apertis verbis si pone contro i processi stereotipizzanti? Gli addestratori di quella razzaccia inutile che sono i “social justice warrior” sono quindi spalle al muro.
L’amministrazione Trump ha insomma trovato la chiave di volta, non solo prendendo gli avvelenatori della normalità dal lato del portafogli, ma anche e soprattutto opponendogli i loro stessi argomenti settari però riportati al livello di valori costituzionali e collettivi. “Molte persone”, si dice nella premessa dell’Ordine presidenziale, “portano avanti una visione che ha le sue radici in gerarchie basate su identità collettive sociali e politiche invece che nella dignità intrinseca ed eguale di ogni persona come individuo”. Queste spinte malsane, continua il dispositivo, “rischiano di trasformare l’America in un paese irredimibilmente razzista e sessista, dove alcune categorie di persone vengono definite oppressore solo in base alla loro razza o al sesso di appartenenza”. Ed è arrivato il momento di finirla con i distinguo dettati dalle più svariate minoranze, basati su ricostruzioni storico-sociali a dir poco fantasiose, sui vittimismi e sul correlato senso di colpa altrui. “Essere giudicati per la sostanza del proprio carattere” e non per altro, questo era il sogno di Martin Luther King, leader stuprato alla follia da chi ne usa il ricordo come vessillo politico, la cui idea alla fine viene realizzata dal presidente meno politically correct che si sia mai visto. Che la sua strategia sia non solo vincente ma soprattutto giusta lo dimostra la caratura delle proteste che arrivano dai campus USA: “giudicare la gente in base al merito è razzista”, blaterano nel delirio. O ancora: “la meritocrazia opera per preconcetti”. Fino al capolavoro dello Smithsonian Institution, secondo cui l’Ordine presidenziale vuole proteggere e promuovere “aspetti e presupposti da bianchi”.
Serve un’altra presidenza Trump.
Una domanda frequente per chi vive il presente con una certa consapevolezza è da dove diavolo arrivi quell’immensa alluvione di sciocchezze che ci travolge ogni giorno e che, per sintesi, va sotto il nome di “politicamente corretto”. Quella roba, per intenderci, che fa gridare allo scandalo se su una pubblicità di intimo femminile c’è una donna… in intimo femminile; che chiede di violentare la lingua per portare al femminile parole neutre; che etichetta prodotti, opere d’arte, film e persino cartoni animati come omofobi o razzisti per motivi che risulterebbero irragionevoli anche in un manicomio; che pretende di attribuire ogni colpa universale al maschio bianco etero; che impedisce di criticare anche solo blandamente una donna proprio “in quanto donna”, e così via. Ebbene, la fonte inquinata da cui questo delirio sgorga copiosamente, per lo meno per quanto riguarda l’area occidentale del mondo, è proprio là, oltreoceano, negli Stati Uniti, in particolare nelle sue università, con il suo bel ripetitore e amplificatore nella cugina Gran Bretagna. Dall’America e dalle sue università arrivano in linea di massima tutti gli impulsi che finiscono per determinare stili di vita, modelli di pensiero ed equilibri sociali in tutta la sfera geopolitica in qualche misura sotto la sua influenza.
Da lì è partito quel processo che ha trasformato la pulsione verso l’equità sociale in spinta isterica all’inclusività purchessia, all’appiattimento feroce, all’estremizzazione del rispetto per le minoranze verso una forma di dittatura delle stesse, accompagnata da un’autocritica portata quasi sempre oltre i limiti di un autolesionismo iconoclasta e talvolta pure un po’ masochista. La globalizzazione ha fatto il resto, diffondendo la melma prodotta da questa fonte inquinata in tutte quelle parti del mondo dove le identità locali risultavano disattente, imprudenti o deboli. Trump ha fatto molto negli ultimi quattro anni per mettere un argine a queste pulsioni devastatrici e il suo recente Ordine è il primo atto non più solo di tutela ma anche di attacco alle roccaforti del pensiero debole e del politicamente corretto. Un’opera meritoria che si spera non venga interrotta. Un altro quadriennio con Trump, se sarà in grado di tenere questo ritmo e questo coraggio, potrebbe rappresentare una svolta per un futuro dove l’etica e la vita stessa delle persone non siano più un gioco a geometrie variabili in viaggio di sola andata verso il degrado, ma un nuovo dinamismo dialogante che vola alto, su rotte e valori equi e oggettivi. Ed è in questo senso che vanno tutti i nostri auspici.