di Giorgio Russo. “Il Messaggero” fa parte del Gruppo GEDI, quello che si fa dettare le linee guida per la scrittura degli articoli da frau Michela Murgia, dunque non stupisce che abbia una sezione del proprio sito, chiamata “Mind the gap”, dedicata alla propaganda femminista e dintorni. Lì ha ospitato, una settimana fa, un articolo che, a una lettura superficiale, meriterebbe di passare inosservato, come tanti altri simili, ma in realtà esso contiene alcuni elementi di riflessione non irrilevanti. Il tema centrale sono i mal di pancia dell’intera industria dell’antiviolenza, che ha una fretta indiavolata di accreditarsi come prima tra i divoratori delle ipotetiche risorse in arrivo con il “Recovery Fund”, e dunque prova a fare la voce grossa. Ha già ottenuto molto in realtà: con i suoi tentacoli è riuscita a far parlare diversi pupazzi, tra opinionisti e politici, a proprio favore, arrivando persino al povero Presidente della Repubblica. Tutti d’accordo, a parole, sul fatto che il “Recovery Fund” deve tingersi quasi completamente di rosa. Al di là delle marionette solite però, Rosa Nostra ha un problema incipiente con l’opinione pubblica, che oggettivamente non ne può più. Non si contano le imprese che hanno chiuso, a breve si sbloccherà la possibilità di licenziare e l’Italia subirà un rimbalzo spaventoso della disoccupazione, in più c’è lo stramaledetto covid-19 di cui non si riesce a venire a capo… insomma uno scenario pesante, dove difficilmente le bizze di un’industria metà sommersa e metà parassitaria possono essere tollerate.
Ecco allora che le nostre signore del femminismo d’affari mostrano i muscoli e presentano un ultimatum: entro quattro mesi l’Italia si adegui alla “Convenzione di Istanbul” o sono vagine amare per tutti. Ma che succede? Da quando in qua l’Italia è inadempiente verso quel ridicolo accordo internazionale? La risposta è perentoria: lo chiede l’Europa, soprattutto dopo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ci ha condannati per il caso Talpis (un uomo che nel 2016 uccise il figlio e tentò di uccidere la moglie, che aveva in precedenza presentato diverse denunce). Un fatto scan-da-lo-so, e ora “entro il 31 marzo 2021 le autorità italiane devono fornire informazioni sulle misure adottate o previste per garantire un’adeguata ed efficace valutazione e gestione del rischio”. Fuori le carte, Italia! Fuori le statistiche! Che fai per difendere le donne dai milioni di uomini carnefici che tieni in pancia? Insomma una vera e propria resa dei conti, con carte marchiate in blu e stelline gialle sbattute sul tavolo da D.I.Re, ossia la cinghia di trasmissione tra l’industria italiana dell’antiviolenza e le strutture sovranazionali come GREVIO o EIGE. Ma, come sempre, è fuffa. Tutta fuffa autoreferenziale mescolata a un buon assortimento di bugie e mistificazioni.
Due grandi novità.
È vero che l’Italia è stata condannata per il caso Talpis, ma non che la CEDU abbia attivato una “procedura di verifica” (cosa che non è nei suoi poteri), come sostiene l’articolo. A chiedere la verifica è il Consiglio d’Europa, quel carrozzone che non ha nulla a che fare con l’Unione Europea, ma è solo la quinta colonna dell’ONU nel cuore dell’Europa. Non solo: è l’ente promotore della “Convenzione d’Istanbul” e la sacca infetta che contiene in sé organizzazioni come il già citato GREVIO. Dunque non è affatto l’Europa che ci chiede qualcosa: è il redattore di un contratto del piffero che ci chiede di dimostrare che stiamo rispettando il contratto stesso. Niente di sconvolgente e, data la scarsissima autorevolezza del Consiglio d’Europa, è un richiamo davvero irrilevante. Ancor più alla luce della singola sentenza Talpis, considerato che sono una ventina circa le sentenze CEDU che condannano l’Italia per il non rispetto del diritto dei minori alla bigenitorialità. Ma su quello D.I.Re., GREVIO e tutta l’industria collegata non sbatte i pugnetti arrabbiati sul tavolo, curioso vero? Come anticipato, dunque: tanto rumore per nulla, solita fuffa periodica, con tanto di ennesimo richiamo alla “necessità di maggiori risorse” per i centri antiviolenza. Eppure due novità ci sono in questa sbrodolata usuale.
La prima riguarda un accenno alla legge che regolamenta i centri antiviolenza, ossia l’accordo Stato-Regioni del 2014. Una vergogna nazionale la cui riforma è stata più volte annunciata, senza che mai venisse realizzata. Rosa Nostra ha le sue proposte astute (ne abbiamo parlato qui), ma teme che le vacche magre del periodo e un po’ di buon senso dettino al legislatore criteri più rigorosi, ad esempio la concessione di risorse sulla base delle problematiche realmente risolte e un’attività rendicontativa che sarebbe più che doverosa per soggetti percettori di denaro pubblico (così già impongono alcune amministrazioni regionali, come la Lombardia). Misure del genere impedirebbero le ormai consolidate ruberie e le speculazioni clientelari, ed è per questo che l’industria dell’antiviolenza fa la voce grossa richiamandosi alla protezione pseudo-europea. La seconda novità, affermatasi solo di recente nelle comunicazioni del genere, è qualcosa di cui (bando alla modestia per una volta) a buon diritto ci prendiamo il merito. Tutto è contenuto in una dichiarazione dell’avvocato Titti Carrano (corsivi nostri): “il sistema italiano ostacola ancora l’accesso alla giustizia delle donne sopravvissute alla violenza domestica, come dimostra l’alto numero di archiviazioni preprocessuali delle denunce“.
Non è più aria, care sorelle.
Sono anni ormai che ribadiamo un fatto che è nei numeri del Ministero della Giustizia: i milioni di uomini carnefici non esistono. Esistono decine di migliaia di denunce e meno di 5.000 condanne in media ogni anno. Un’inezia. Mentre le archiviazioni sono innumerevoli. Se non tutte, quasi, sono false accuse. A forza di ripetere il concetto, qualcosa è passato: abbiamo disinnescato il giochino infame con cui l’industria dell’antiviolenza faceva passare le sole denunce come qualcosa di rilevante e gliel’abbiamo girato sulla schiena. È un peso enorme, che gli fa tremare le ginocchia ma soprattutto i bilanci finanziari. Per liberarsene provano il tutto per tutto: usare una sentenza CEDU e spacciare per pressione europea ciò che in realtà è una richiesta non vincolante per indurre l’intero sistema giudiziario nazionale ad archiviare di meno e magari a condannare di più, quando si tratta di uomini imputati. Una mossa audace, un atto disperato da dittatorucole da quattro soldi rinserrate in un bunker a sognare armate inesistenti, per le quali vengono spese anche risorse destinate all’indottrinamento. Vogliono, fortissimamente vogliono scardinare lo Stato di Diritto e ottenere, come in Spagna, l’inversione della presunzione d’innocenza per gli imputati di sesso maschile. Ne va della loro sopravvivenza, dunque lanciano il cuore oltre l’ostacolo e immaginano uno scenario da olocausto post-totalitario dove tutti gli uomini vengano arrestati e condannati. Non funzionerà. Un po’ per la refrattarietà al cambiamento del sistema giudiziario italiano, un po’, soprattutto, care “sorelle”, perché non è più aria. L’Italia non è e non sarà mai come la Spagna. Mettetevi il cuore in pace e cominciate a cercarvi un lavoro vero. E che possibilmente non devasti le vite degli altri.