di Giorgio Russo. A che punto siamo? Vale la pena chiederselo, di tanto in tanto. Specie quando si è in trincea, dopo aver sparato molte cartucce e dopo che l’artiglieria ha tuonato per ore. Perché, lo si è detto più volte, è in atto un conflitto. Annunciato finché si vuole, ma comunque traumatico, ora che è in corso. E non si tratta solo di quello che adesso occupa le vostre giornate e le vostre preoccupazioni, astutamente orientate dai media, ovvero i dilemmi “mascherine sì o mascherine no”, “DPCM è dittatura oppure no”, “il covid esiste oppure no”. Al di sotto di queste querelle c’è un’altra guerra in corso, che avviene su due fronti enormemente sproporzionati in termini di forze. Il primo è quello che si presenta con le vesti del progresso e della giustizia sociale e che nasconde al di sotto un’inarrestabile marcia verso la supremazia di due ideologie alleate, quella femminista e quella queer. Dall’altra parte ci siamo noi, con ciò intendendo persone normali, uomini e donne ancora dotati di coscienza critica, di valori identificati e di identità ben definite. Una massa di persone per lo più paralizzate e ammutolite di fronte al dilagare sfacciato di quella forma di “progresso”.
Le guerre, per essere tali, comportano atti ostili di una parte verso l’altra. Ultimamente ne contiamo tantissime nei nostri confronti. Per esempio è un atto chiaramente ostile coprire con denaro pubblico i debiti di una singola associazione soltanto perché si occupa di donne, sebbene siano tante in Italia le associazioni meritorie che hanno bisogno d’aiuto. È un atto assolutamente ostile che si dettino regole precise e obbligatorie a chi dovrebbe raccontare la realtà, cioè ai mass-media. È un modo per manipolare il sentire comune, dunque per togliere senso critico e libertà di pensiero alla comunità di uomini e donne. Eppure così accade grazie ad accordi sindacali, alle pressioni di singole opinioniste e, novità recente, a veri e propri corsi di indottrinamento per operatori dell’informazione, della giustizia e dell’ordine pubblico. Il “Manifesto di Venezia” che si fa sistema, il “trattamento Murgia” che si istituzionalizza, affinché una realtà che non esiste (gli uomini sempre carnefici di donne sempre vittime) venga raccontata come unica versione possibile e trovi piena applicazione non solo su quei romanzi anti-utopici che sono gli organi di informazione, ma anche nella realtà fattuale della società. Il tutto, a rendere ancora più grave l’atto ostile, con la benedizione ministeriale, parlamentare e del maggiore quotidiano economico nazionale. In Spagna, dove questa ondata ha già devastato tutto, esistono già due giurisdizioni, una per gli uomini e una per le donne. Il bizantinismo della politica e dell’intero sistema italiano non consente di fare qui la stessa cosa in modo formale, così ci si limita a un comunque ugualmente efficace indottrinamento. Il rispetto del quale diventa cogente nel momento in cui su di esso si investono corpose risorse economiche. Non c’è bando di finanziamento pubblico ormai che non richieda la conformità delle candidature ad asserite “politiche di genere” orientate a quella che viene ipocritamente chiamata “parità”. Un ulteriore atto ostile che, tradotto, dice: o ti adegui al nostro racconto, o niente risorse, niente cattedre, niente posto di lavoro, niente credito, niente finanziamenti.
L’esclusione da ogni beneficio di metà della comunità.
Già, i soldi… quelli mancano sempre e per questo sono sempre una priorità. Ora parrebbe che un gran flusso sia in arrivo, grazie al “Recovery Fund”. Che questo sia cosa buona o meno, non è oggetto né di questo articolo né rientra nelle competenze di queste pagine, dunque ci si può limitare a considerarlo un poderoso flusso di denaro potenzialmente in arrivo. Ed è in questo senso che va ritenuto un ulteriore atto ostile che intere organizzazioni di ispirazione femminista si mobilitino, più rapide di uno sciacallo affamato, dichiarando apertamente che metà di quelle risorse vada spesa soltanto per le donne. Tra queste c’è chi ipotizza con grande naturalezza che i denari vengano utilizzati per aumentare gli stipendi delle professioni a maggiore incidenza femminile (“insegnanti, personale medico e paramedico, assistenti all’infanzia e alla vecchiaia, educatrici, addetti ai servizi di pulizia e sanificazione”), oltre a garantire una doverosa golden share ai centri antiviolenza. Nel sostenere questo si fa riferimento a grandi progetti, grandi studi o organizzazioni dai nomi altisonanti (“Position paper”, “Ladynomics”), come se non si trattasse di elaborazioni nate tutte dalla stessa sorgente e dunque banalmente autoreferenziali. Sono paginate di nulla cosmico dove il femminismo dice a se stesso di meritare tutto, anzi di più, che poi vengono presentate all’esterno come se fossero impegni vincolanti per tutti. La quantità di falsificazioni contenute in quei documenti e il sopruso insito nelle istanze che da essi derivano sono a tutti gli effetti ulteriori atti ostili verso tutti gli altri, tutti noi che non apparteniamo al e non ci riconosciamo nel piccolo cerchio magico di una minoranza famelica e spietata, pronta a mentire sempre e spudoratamente, ad avvelenare il presente e a divorarsi gran parte del futuro.
A questi atti ostili si adeguano tutti, ad ogni livello, per conformismo o per convenienza. Tra questi, gli opinionisti o i giornalisti che, pur potendo e magari volendo parlare e opporsi, tacciono preferendo attaccare il carro dove vuole il padrone del momento. Sono quelli che, non potendo esagerare con le notizie inventate (pur numerosissime), gonfiano quelle esistenti, che già di loro difficilmente potrebbero considerarsi “notizie”. Come quella delle due ragazze che hanno letto in piazza, durante una manifestazione a favore del DDL Zan, gli insulti ricevuti sui social sotto una loro foto mentre si baciavano. Un modo astuto ed emozionale per spacciare gli insulti di qualche ignorante come se fossero “violenza”. Un comportamento idiota tra i tanti possibili trasformato in un atto lesivo, ma solo ed esclusivamente se diretto a una comunità specifica, per garantire a quest’ultima leggi e trattamenti di favore. Anche questo è un atto ostile, non solo verso chiunque si prenda insulti senza essere gay, lesbica o altro, ma verso il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge. Dunque verso tutti. Il problema però non è solo l’acquiescenza dei mass-media, sebbene sia uno dei principali. Lo si è detto: gli atti ostili si replicano ad ogni livello, anche a quelli più impensabili. Ed ecco allora che addirittura la paludata Banca d’Italia si lancia in progetti dedicati alle donne. In particolare a insegnare alle donne come manovrare il denaro in ambito finanziario (magari i milioni arraffati dal Recovery Fund). Per giustificare il progetto sessista vengono addotte le solite ragioni: il sacrificio femminile durante il lockdown, il gap salariale e tanti altri miti privi di fondamento che nessuno più si azzarda a mettere in discussione, perché sono tanti i soldi che portano con sé. Soldi da far girare e intascare nell’immediato, a prescindere che gli interventi siano mirati e davvero utili, ma soprattutto a prescindere dai risultati reali. Tra i quali uno solo verrà perseguito con tenacia: l’esclusione da ogni beneficio di chiunque non faccia parte dell’accolita giusta, ovvero di gran parte della comunità.
Un esercizio di mera ipocrisia.
Ma l’acquiescenza non è solo di questi soggetti. È anche, intristisce dirlo, dal nostro lato. Dal lato di quella maggioranza che vorrebbe risorse mirate a sostenere indistintamente tutto il tessuto socio-economico del paese, destinate a più soggetti possibile e a prescindere dal genere, per fare in modo che un’intera comunità se ne giovi. Una maggioranza che non si riconosce minimamente nel racconto della realtà inventato dai centri di potere femminista e queer, e che vorrebbe un clima più disteso e cooperativo che non trasformi l’appartenenza a un genere o all’altro in un pretesto per conflitti, recriminazioni e per l’ottenimento di privilegi a scapito di altri. Una maggioranza giusta, insomma, che però non si muove, tace attonita di fronte allo sfacelo in atto. È un esercito che potrebbe scacciare i ladroni e le ladrone dal tempio facendo anche solo un passo, eppure resta piantato davanti al proprio smartphone, limitandosi a insultare questo o quello, oppure discettando di complotti più o meno fantasiosi. Il tutto mentre nella realtà reale c’è chi gli pianta attorno in piena comodità i paletti che costituiranno il confine di ciò che sa, deve sapere e deve accettare acriticamente. Questa massa di persone normali ipnotizzata e resa inoffensiva, come un cobra dal suo pifferaio, mentre le si apparecchia un futuro di squilibrio, ingiustizia sistematica e povertà, è il capolavoro della propaganda e dell’azione “progressista”.
C’è qualcuno che prova a sradicare quei paletti infami, rilanciandoli sulla schiena a chi li ha messi. Ma, come ogni avanguardia, specie quando ha a che fare con un sistema così gigantesco e così potente, si tratta di piccoli manipoli di coraggiosi, che ci provano nonostante la stanchezza e la frustrazione. Nei momenti di scoramento questa avanguardia si chiede e chiede a tutti: ma davvero a voi sta bene tutto questo? Davvero vi pare tutto normale? Realmente non c’è nulla che non vi torni in quanto sta accadendo? Che il degrado riesca ad avanzare così rapido e indisturbato sotto gli occhi di tutti lascia pensare che sia troppo tardi, che non ci sia modo per risvegliare una coscienza collettiva e maggioritaria di uomini e donne tale da fermarlo. La censura sistematica, così come il rincitrullimento onanistico da social network o la quota di donne che fiancheggiano silenziosamente l’andazzo sperando in qualche vantaggio, bastano solo fino a un certo punto a giustificare la totale mancanza di reazione. Sotto a tutta questa inazione ci sono pigrizia e paura. Lì sta il vero freno a mano tirato della maggioranza borbottante ma immobile. Non si è ancora capito come fare a sganciarlo, al momento. La certezza è che, avanti così, verrà sganciato troppo tardi, quando lo schianto di una reazione fuori controllo da parte di chi si scoprirà improvvisamente oppresso sarà diventato inevitabile. In allora, chi avrà tirato troppo la corda, sconterà tutto con interessi di molto superiori alla giustizia; chi oggi è o fa da cieco e sordo si domanderà, vagando tra le macerie, come avesse potuto non accorgersi di quanto stava accadendo, nonostante gli allarmi suonati a distesa da pochi lasciati inascoltati. Ma, con tutto quello che si è già scritto e detto, più che una domanda, sarà un esercizio di mera ipocrisia. Anche gli occhi, le orecchie e le bocche chiuse di oggi saranno domani un capo d’imputazione per chi poteva fare qualcosa ma è rimasto fermo per conformismo, convenienza, pigrizia o paura.