di Alessio Deluca. Settimana scorsa due vicende molto note in tutto il paese hanno trovato il loro epilogo. La prima è quella dell’omicidio del giovane Marco Vannini, vent’anni, colpito da un colpo di pistola mentre era a casa della fidanzata Martina Ciontoli, a Ladispoli, e lasciato colpevolmente in agonia dai presenti quella sera: Antonio e Maria, rispettivamente padre e madre di Martina, e anche il fratello Federico. L’iter giudiziario che ha riguardato la vicenda è stato lungo e tormentato, con un processo d’appello ripetuto per disposizione della Corte di Cassazione, che ha ritenuto troppo lieve la condanna irrogata in una prima fase. Il processo d’appello bis ha tenuto conto delle indicazioni e ha condannato Antonio Ciontoli a 14 anni di carcere per omicidio volontario e Maria, Martina e Federico a nove anni e quattro mesi per concorso anomalo in omicidio volontario. La famiglia della vittima ha sempre presenziato a tutte le udienze e ha combattuto senza mai retrocedere per avere giustizia per la scomparsa del loro figlio. In prima linea la madre di Marco Vannini, Marina Conte, che ora dice una frase importante: “la giustizia esiste”.
La seconda vicenda è, se possibile, ancora più tormentata, e vede come protagonisti del dramma due giovani ragazzi, Valentina Pitzalis e Manuel Piredda. Anche la loro storia, come quella di Marco Vannini, è molto nota, essendo stata ampiamente coperta dai mass media. Quello che conta è il suo esito: un ragazzo morto e una ragazza sfigurata e resa disabile dalle fiamme, il primo accusato di aver tentato di ucciderla dandole fuoco, rimanendo egli stesso vittima del suo tentativo e come tale sentenziato colpevole post mortem dai giudici. Una certificazione a cui i genitori del ragazzo non si sono mai rassegnati, sostenendo anzi la tesi opposta: a uccidere è stata Valentina, poi rimasta vittima del suo stesso atto. Il procedimento giudiziario è stato tormentatissimo, costellato da esumazioni del corpo di Manuel, perizie, ricorsi. La vicenda ha generato anche due vere e proprie tifoserie, entrambe caratterizzate da un odio viscerale e irrazionale per la rispettiva controparte. In un clima di continue minacce e querele incrociate, la famiglia di Manuel ha mosso ciò che era suo diritto muovere per avere certezza su come fossero andate le cose, fino all’epilogo finale: non ci sono prove sufficienti per ipotizzare che sia stata Valentina a uccidere Manuel, dunque il caso viene archiviato, per insufficienza di prove, in modo definitivo. La madre di Manuel, Roberta Mamusa, che ha lottato strenuamente per avere una verifica della sua verità, alla notizia ha un grave malore e viene ricoverata. E al contrario di Marina Conte, dirà: “la giustizia non esiste”.
Una danza macabra su due cadaveri.
Due storie analoghe che finiscono in modo opposto. In entrambe si ha un ragazzo morto nell’ambito di una relazione affettiva, procedimenti giudiziari lunghi, complessi e combattuti, una mediatizzazione spintissima delle vicende, con tanto di formazione di schieramenti contrapposti, e infine il coinvolgimento di due famiglie come parte attiva nella ricerca di giustizia. In entrambi i casi la dinamica degli eventi non è limpida: per Marco Vannini c’è chi ha sostenuto (e ancora sostiene) che non si sia trattato di omicidio volontario ma colposo; nel caso di Manuel Piredda, come si è detto, c’è chi ha sostenuto (e ancora sostiene) che la colpevolezza fosse in capo a chi veniva considerata come vittima. In un caso e nell’altro non mancano gli elementi non del tutto spiegabili e le incoerenze, con ciò dando adito a dubbi che non rendono mai pienamente convincente la ricostruzione dei fatti. Su tutto sovrasta però la verità giudiziaria che, sebbene non sempre coincida con la verità dei fatti, ha messo definitivamente la parola fine a tutto. E l’ha fatto in direzioni opposte. Vale la pena fare qualche riflessione aggiuntiva sulle due vicende e provare a ipotizzare un motivo per questo disallineamento.
E allora non si può fare a meno di ipotizzare che sulle due vicende possa aver pesato anche un bias culturale ben definito. Si noti: in entrambi i casi a chiedere e perseguire la giustizia sono state due famiglie, ossia una madre e un padre, rispettivamente di Vannini e di Piredda. La figura che però in entrambi i casi è emersa dal lato mediatico è stata quella delle due madri, mentre i due padri sono rimasti in seconda o terza linea, defilati, ignorati. I media hanno scelto dei due genitori la figura più evocativa, hanno costruito l’immagine delle “madri coraggio”, che da sempre mobilita le emozioni molto di più del “padre coraggio” o della “famiglia coraggio”. Su questo ghiotto piatto a base di esposizione mediatica si sono gettati in tanti, giornalisti, opinionisti, influencer alla caccia ossessiva di like, che hanno alimentato scontri tra fazioni e un profluvio di hate speech convertendo il tutto a proprio vantaggio. Una danza macabra su due cadaveri a cui le dilaganti “legioni di imbecilli”, secondo la definizione di Umberto Eco, hanno partecipato con livoroso entusiasmo, creando attorno alle due vicende un clima tutt’altro che sereno, non solo per chi ne era coinvolto, ma anche per chi è stato chiamato a emettere un giudizio.
Sarebbe andata allo stesso modo a parti invertite?
Allo stesso modo non si può fare a meno di notare che sul banco degli accusati c’erano persone di genere diverso: Antonio Ciontoli, uomo, in un caso; Valentina Pitzalis, donna, nell’altro. Il primo eletto a portatore della responsabilità di tutta la famiglia, la seconda da tempo assurta a simbolo della violenza contro le donne. Colpisce e fa riflettere che la vicenda Vannini si sia conclusa con una condanna pesante per l’uomo e una più leggera per il resto della famiglia, due donne, più il fratello Federico, il primo a essere incolpato dei fatti, per poi riuscire probabilmente a giovarsi, in fase di condanna, della cortina di pizzo della sorella e della madre. Colpisce e fa ugualmente riflettere che nella vicenda Piredda-Pitzalis a essere accusata fosse non solo una donna, ma anche una persona elevata dai media a portavoce e testimone vivente della “violenza maschile”, su proporzioni, si potrebbe dire parafrasando una formula americana, too big to be convicted, troppo grandi per finire condannata. In sostanza è legittimo chiedersi, dalla nostra prospettiva, se i processi, a esatta parità di dinamiche e condizioni, sarebbero terminati nello stesso modo invertendo i generi. Se fosse stata una madre a freddare con un colpo di pistola la fidanzata del figlio, se a rimanere sfigurato e disabile fosse stato un ragazzo e a morire una ragazza, avremmo avuto gli stessi identici esiti? Alla luce di anni di osservazioni e dati, consapevoli di quanto peso abbia il sesso di appartenenza nei tribunali, ci prendiamo il lusso di rispondere di no.