di Fabio Nestola. Dopo l’On. Giannone (nientedimeno!), ecco altre proteste per il Memorandum di cui si è parlato nell’articolo di stamattina, prontamente rilanciate dall’agenzia di stampa D.I.Re. Che i firmatari del Memorandum siano “autoreferenziati” lo può scrivere solo chi non possiede nemmeno un’unghia delle competenze accademiche e professionali acquisite dai firmatari stessi. Le referenze non se le auto-attribuiscono ma vengono loro riconosciute in campo universitario, in campo giuridico, psicologico, psichiatrico, neuropsichiatrico, pedagogico, criminologico. Molti dei professionisti sono docenti universitari, titolari di cattedra o associati, e curano master di primo e secondo livello. Oltre 100 accreditatissimi professionisti, insomma, vengono sviliti a professionisti tra virgolette da chi professionista non è. La denigrazione è l’arma degli ignoranti: chi sa fare, fa; chi non sa fare, critica.
Già questo basterebbe a dare il giusto peso specifico alle proteste isteriche di personaggetti, per dirla alla De Luca, che salgono in cattedra senza averne i titoli e si permettono di mettere in discussione le competenze di gente che non le assumerebbe nemmeno per fare le pulizie nello studio. Non vale la pena di entrare nel merito delle contestazioni al Memorandum, un concentrato di qualunquismo e dozzinalità di basso profilo. Aggiungo però una riflessione, accompagnata da un minimo di genesi della situazione attuale che forse chi lamenta un accanimento antimaterno non conosce, o finge di non conoscere: in un sistema giudiziario smaccatamente mother friendly come quello italiano, i numeri confermano il principio pervasivo della maternal preference, a volte citato dalla Cassazione, ma presente nel tessuto della magistratura e quindi nelle caratteristiche delle sentenze, anche quando non esplicitamente citato. Una filiera giudiziaria (giudici, avvocati, PM, consulenti, testisti, servizi sociali) che sforna il 2% di affidi tendenti a tempi paritetici, il 3% di affidi materialmente condivisi ed il 95% di affidi esclusivi mascherati da condiviso (di cui lo zerovirgola ai padri), avrà dei motivi concreti nei rarissimi casi in cui esclude la madre dall’affidamento della prole? Sarà una forma di accanimento contro la madre o di protezione dei figli da una madre inadeguata?
Oltre il 90% di affidamento esclusivo alla madre nei decenni di giurisprudenza precedente alla riforma del 2006. Con l’affido condiviso non è cambiato nulla perché il genitore collocatario continua ad essere sempre la madre nel 90% dei casi. Non si tratta solo di una forzatura lessicale in quanto il genitore collocatario non esiste nella legge 54/06, è un’invenzione di quella stessa magistratura che odierebbe le madri, pensa un po’, ma ha dei riflessi concreti sulle frequentazioni: anche con l’affido condiviso i figli trascorrono l’83% del tempo col genitore collocatario, il 17% con l’altro genitore. Tradotto in pratica: i tribunali continuano imperterriti nel creare lo squilibrio fra genitore prevalente e genitore marginale. Il padre era prima dell’affido condiviso, e continua ad essere nonostante la riforma dell’affido condiviso, il genitore marginale nel percorso di crescita della prole. Questo scrivevo nel 2012 in uno studio sui primi 6 anni di applicazione della riforma, pubblicato sul portale scientifico Psychomedia.
“Si riscontra un incremento percentuale di provvedimenti che prevedono l’affidamento condiviso. Privato, però, dei contenuti previsti dalla norma. Continua ad essere ben saldo il genitore prevalente: colui il quale accentra i compiti di cura, di educazione e di assistenza. Con la precedente normativa veniva indicato come affidatario, a valle della riforma come collocatario: termine e concetto di esclusiva origine giurisprudenziale, inesistente negli artt. 155 e seguenti. Si verifica la restaurazione di un genitore prevalente ed uno marginale, un genitore pianeta ed uno satellite, un genitore che rappresenta il principale punto di riferimento nel processo di crescita dei figli e l’altro che vi prende parte solo per uno sporadico “diritto di visita”. Quale che sia la definizione, la criticità risiede nel fatto che viene restaurata una cronica asimmetria fra genitori, esattamente ciò che il legislatore intendeva eliminare”. Sintetizzavo così il concetto con la metafora di un barattolo, l’etichetta del quale riporta la dicitura “affido condiviso”, ma i contenuti non hanno nulla a che vedere con l’affido condiviso e non sono altro che la replica del modello precedente.
Ad oggi non è cambiato nulla, anche nel 2020 il genitore prevalente continua ad essere la madre, il padre continua ad essere emarginato nella casistica di separazioni e divorzi. L’anomalia tutta italiana di ignorare sistematicamente l’equiparazione tra i ruoli genitoriali è stata rilevata dal Consiglio d’Europa che nel 2015, con la Risoluzione Co.E. 2079/15 e la relazione introduttiva 13870, sollecita gli Stati comunitari a “promuovere la shared residence come forma di affido in cui i figli dopo la separazione genitoriale trascorrono tempi più o meno uguali presso il padre e la madre” (5.5). Infine nel 2016 persino l’ISTAT ha dato ragione alle (poche) voci che denunciavano il fallimento dell’affido condiviso in Italia, la sua sostanziale disapplicazione e la generale difficoltà della magistratura nell’affrancarsi dal modello di affido monogenitoriale basato sulla maternal preference, precedente alla riforma. L’ISTAT riconosce che l’affido condiviso non è stato applicato, scrivendo testualmente a pag. 13 del report che “(…) al di là dell’assegnazione formale dell’affidamento condiviso, che il giudice è tenuto a effettuare in via prioritaria rispetto all’affidamento esclusivo, per tutti gli altri aspetti considerati in cui si lascia discrezionalità ai giudici, la legge non ha trovato effettiva applicazione (…)”.
Quindi alla dicitura formale affido condiviso non corrispondono le misure sostanziali indispensabili a renderlo concreto. Il barattolo, l’etichetta farlocca, i contenuti diversi da ciò che è scritto nell’etichetta. Riassumendo, a partire dalla legge sul divorzio (898/1970) la madre è il genitore col quale prevalentemente restano a convivere i figli e ciò si verifica in percentuali bulgare, costantemente oltre il 90%. La riflessione che ne deriva: da una consuetudine giurisprudenziale refrattaria persino alle riforme normative, emerge un favor per la figura materna consolidato negli anni. Nei rari casi in cui un tribunale decide diversamente, non è ridicolo lamentare un accanimento antimaterno? Giova ripeterlo: il collocamento dei figli dal padre non sarà per caso una misura di protezione dei figli stessi da una madre che si è dimostrata pregiudizievole? Devono figurare agli atti evidenze estremamente rilevanti per spingere i giudici a prendere decisioni tanto impopolari, inconsuete, contrarie allo schema precostituito. Nulla accade per caso, i procedimenti giudiziari che portano a risultati diversi dal cliché “la mamma è sempre la mamma” di solito durano anni ed accumulano faldoni di atti che si misurano a metri cubi. Le decisioni più sofferte, proprio perché emesse uscendo dallo schema prevalente, poggiano su solide basi documentali.
A quanto pare, però, il sistema giudiziario è perfetto fin quando si adagia nel solco tracciato da decenni: i figli devono stare con la madre. Diventa tossico solo quando si discosta dallo schema precostituito. Allora ecco che una decisione diversa diventa violenza istituzionale. Nella frenesia tanto in voga di dichiararsi vittima di qualche forma di violenza, quella istituzionale mancava. La lamentela degli ultimi mesi ha coniato il nuovo slogan della violenza istituzionale che colpirebbe quelle madri che denunciano i mariti violenti. Poco importa se le denunce siano immotivate e si risolvano in archiviazioni o assoluzioni, comunque in un nulla di fatto: l’importante è denunciare per poter dire di aver denunciato, punto. Ho denunciato, quindi ho ragione. Invece la ritorsione del sistema giudiziario, notoriamente ostile ad ogni donna che sporge denuncia, si manifesta con l’affidamento proprio al genitore violento. Lui è violento di default, anche se gli accertamenti degli inquirenti dicono che non è vero.
I giudici non capiscono niente, i consulenti non capiscono niente, tutte le figure professionali intervenute non capiscono niente, sono solo cialtroni autoreferenziati, l’intero sistema giudiziario nazionale è ostile alle madri. Ogni anno l’ISTAT ci dice che vi sono oltre 150.000 tra separazioni e divorzi, circa 200.000 aggiungendo le cessazioni di convivenza con prole, dunque un milione ogni 5 anni. La “Commissione Femminicidio”, in nome della violenza istituzionale che penalizzerebbe le donne, sta analizzando circa 500 casi sospetti in cui i tribunali hanno avuto la sfrontatezza di stabilire, dopo attente e prolungate valutazioni, che figli debbano stare col padre. Poi alcune madri si rifiutano di eseguire, ma questo è un dettaglio che magari approfondiremo in un altro articolo. Se anche solo 500 sentenze su un milione stabiliscono l’affido al padre, bisogna stracciarsi le vesti per la violenza istituzionale, il femminicidio in vita, mai più in silenzio e un’altra manciata di slogan. Le madri devono avere il 100% qualunque cosa facciano, è un diritto naturale che non deve essere intaccato nemmeno dalla giustizia. E chi non si genuflette è maschilista. O autoreferenziato. Comunque un nemico da abbattere.