di Santiago Gascó Altaba. [Qui la prima parte]. Nel 1963 Betty Friedan pubblicò “Mistica della femminilità”, un libro che divenne un best-seller e aprì le porte al femminismo della terza ondata in America. Si è detto ne “Il femminismo di Betty Friedan – 1972, Rai Storia“: “Scrivendo la Mistica della femminilità, Betty Friedan si era proposta di far piazza pulita di tutti i pregiudizi e di tutte le formule ipocrite inventate dalla società degli uomini per ingannare le donne”. Friedan cercò di dare una spiegazione al “problema inespresso”, al “problema senza nome” (“the problem that has no name”) che rendeva infelici, depresse, e predisposte all’abuso di alcol e psicofarmaci le donne americane degli anni sessanta. Secondo Friedan, questo problema era il risultato di un inganno che prendeva il nome di mistica della femminilità, a causa della quale milioni di americane avevano rinunciato ai loro sogni di realizzazione professionale, per dedicarsi esclusivamente alla maternità e alla vita casalinga. Senza necessità di approfondire ulteriormente il contenuto del libro, penso che il capitolo 12 già dal titolo, “Progressiva disumanizzazione: il comodo campo di concentramento”, trasmetta molto bene il tenore della critica al concetto della madre-casalinga e della “famiglia” classica. In questo capitolo Friedan fa una comparazione tra gli effetti psicologici provocati dall’isolamento delle casalinghe americane e quelli dei prigionieri dei campi di concentramento nazisti. Come vedete, un’analogia ragionevole, tutto sommato ambienti molto simili.
Friedan denunciò dunque il condizionamento ideologico delle donne da parte dei media e degli psicanalisti. Prima di pubblicare realizzò un’indagine che le permise di arrivare alle suddette conclusioni. “Una volta realizzato (il questionario), le risposte che duecento donne le avevano spedito ponevano più domande di quelle che lei aveva posto…” (Nuria Varela, “Feminismo para principiantes”, Ediciones B, pag. 95, a proposito di “La mistica della femminilità” di Betty Friedan). Insomma le conclusioni della raccolta di solo 200 questionari hanno prodotto la pubblicazione di un libro che è diventato un best-seller, libro cult dell’ideologia femminista e forza propulsiva di enormi cambiamenti sociali a livello mondiale. Le risposte di questi 200 questionari sono diventate la verità indiscussa di milioni e milioni di donne. Per far un semplice confronto, l’Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile pubblicata dalla rivista specialistica di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. VI, N. 3, Settembre-Dicembre 2012, alla quale partecipai sotto la direzione di Fabio Nestola, aveva un campione di 1.058 soggetti, cioè 1.058 questionari risposti. E, come succede in questi casi, quando le conclusioni sono sgradite, ottenne poco eco mediatico, un’interrogazione in Parlamento per conto del Movimento 5 Stelle e alla fine non divenne la verità di quasi nessuno.
Riflessioni irrealistiche. Per stessa ammissione della Friedan.
Quando Betty Friedan scrisse la sua opera più di un terzo delle donne negli Stati Uniti era occupata nel mercato lavorativo. Evidentemente “Mistica della femminilità” non parlava di queste donne che lavoravano nei bar, nelle fattorie, nei supermercati o in altri tipi di lavoro che lei e le altre casalinghe americane di classe media-alta non ritenevano soddisfacenti. Ecco la mia prima perplessità, e non può essere dovuta al fatto che Friedan non sapesse dell’esistenza di queste donne, poiché lei stessa ingaggiò una domestica a tempo pieno durante il suo matrimonio (“Interviews with Betty Friedan”, Janann Sherman, 2002, University Press of Mississippi, p. 29). In questo, il suo status sociale ed economico non differisce di quello delle femministe della prima e seconda ondata, borghesi e benestanti, che senza lavoro né dentro né fuori casa, né preoccupazioni economiche, ebbero il tempo libero necessario per dedicarsi a scrivere le loro opere e coinvolgersi a tempo pieno nell’attivismo femminista. Le loro domestiche non erano le destinatarie dei loro messaggi.
Ma che l’analisi e le conclusioni dedotte da questi 200 questionari non si attagliassero perfettamente alla realtà non sono io a dirlo, bensì la stessa Betty Friedan. Secondo il libro e in parole semplici, la mistica della femminilità era una costruzione sociale creata dagli uomini a danno delle donne. Le reazioni all’uscita del libro dimostrarono proprio il contrario. Nelle parole di Betty Friedan: “All’inizio, quella strana ostilità che il mio libro (e più tardì il movimento ) sembrava suscitare in certe donne mi stupiva e confondeva. All’inizio non c’era persino l’ostilità che mi aspettavo dagli uomini. Molti di loro compravano “Mistica della femminilità” per le loro mogli e le spronavano a tornare a scuola o al lavoro. Molto presto mi resi conto che probabilmente c’erano milioni di donne che si sentivano come mi ero sentita io, una casalinga suburbana completamente sola, frustrata. Ma se avevano troppo timore non ce la facevano, troppa paura di affrontare i veri sentimenti che provavano verso il proprio marito e i figli con cui vivevano, allora qualcuno che apriva il vaso di Pandora come facevo io era per loro una minaccia”. Molto interessanti queste parole di Betty Friedan, pubblicate in un articolo suo intitolato “Up from the kitchen floor” sul New York Times, il 4 marzo 1973, che difficilmente troverete citate altrove e sui testi femministi. Da queste parole si possono mettere in luce due riflessioni.
Un mondo capovolto. Come la realtà femminista.
Primo, al contrario di quello che si potrebbe immaginare, non di rado gli uomini accolgono entusiasti proposte femministe che, sotto la falsa riga di liberare delle donne oppresse, in realtà liberano gli uomini. In questo caso, anche gli uomini spronano volentieri le loro donne a cercare lavoro, in modo di alleggerire l’onere economico maschile, e farle così contribuire anche loro alle spese domestiche. Per Friedan il lavoro maschile era una realizzazione di sé, un divertimento, un privilegio. Per molti di questi uomini era un gravoso onere, un dovere, una schiavitù. Altri esempi di entusiasta adesione maschile alle “rivoluzioni femministe” sono quella avvenuta nell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione di Ottobre (con l’inevitabile dietro-front soltanto 20 anni dopo) e quella della liberazione sessuale delle donne nel ’68. Come dico ne La grande menzogna del femminismo (pp. 615-616): “…durante la Rivoluzione sessuale femminista degli anni ’60. Le donne invocarono la liberazione sessuale, abbattendo tradizioni retrive e retrogradi pregiudizi; gli uomini accorsero entusiasti a fare l’amore senza inibizioni né tabù. Neanche un decennio più tardi, le femministe avevano già iniziato a rialzare i paletti prima abbattuti, contrarie ai rapporti disinibiti, all’atteggiamento irresponsabile dell’uomo, alla mercificazione del corpo, alla prostituzione, ecc.”. Oggigiorno le femministe sono più suore delle suore, tanto è vero che in Spagna lo sguardo maschile, se “lascivo”, è riconosciuto dal Ministero delle Pari Opportunità come violenza. A onor del vero, è l’Italia che detiene il primato per aver condannato un uomo per uno sguardo scomodo già nel lontano 2008. Per favore, quindi, niente barzellette sconce.
Secondo, è assolutamente escluso che una donna che la pensa diversamente possa farlo al di fuori della verità femminista. Le donne che non aderiscono alla “liberazione” femminista sono vittime del loro condizionamento, prigioniere di un indottrinamento patriarcale, devono essere rieducate. Tutte le donne devono essere “liberate”. Troppe paure, troppo condizionamento per accettare la verità di Betty Friedan. Ma la mia perplessità più grande non è questa. L’aspetto più strabiliante dell’opera di Betty Friedan è a mio avviso l’assenza dell’argomento “violenza”. Oggigiorno, quando si parla di famiglia, l’argomento della violenza di genere è al primo posto in tutte le agende politiche e in tutte le iniziative femministe. La famiglia, istituzione eteropatriarcale, si dice, è il luogo dove la donna subisce le più terrificanti violenze. Se ancora oggi non abbiamo sentito lo slogan “il marito è la prima causa di morte delle mogli”, è soltanto perché l’ONU non è ancora riuscita a redigere correttamente la domanda sul questionario della prossima macro-inchiesta sulla violenza sulle donne in modo che le risposte delle donne offrano una schiacciante conferma. Però pullulano campagne, conferenze, manifestazioni martellanti e universali. Eppure la questione della violenza all’interno di “Mistica della femminilità” e la feroce critica del concetto di famiglia classica non trovano dimora. Betty Friedan, luminare e icona della lotta femminista, non l’ha notata, malgrado i numerosi questionari ricevuti. Scrisse un libro sulla famiglia, sui rapporti marito-moglie, diventato un best-seller e un classico femminista, e nemmeno una riga sulla violenza. La violenza non esiste. Ha dell’incredibile, soprattutto oggi che se ne parla di continuo. Bisognerà aspettare ancora qualche anno, perché Erin Pizzey, donna che femminista non è, renda noto al mondo e al femminismo il concetto di violenza domestica. Per assurdo, a parlare di violenza di genere non fu Betty Friedan, ma suo marito Carl, che definì “il matrimonio con Betty un’esperienza bellica”. Raccontò che nella foga delle discussioni sua moglie gli tirava addosso ferri da stiro, zuppiere e molti altri oggetti di tecnologia domestica” (Il femminismo di Betty Friedan – 1972, Rai Storia). Insomma, un mondo capovolto. Come la realtà femminista.