La Fionda

Un’eroina da non dimenticare mai: Erin Pizzey

di Giuseppe Tarantini. C’è una questione centrale, che andrebbe ripetuta come un eco tra i monti della lotta per la parità: criticare il femminismo non significa criticare le donne. Santiago Gascó Altaba affronta spesso questo aspetto totalitario del femminismo, dovuto alla pretesa ideologica di rappresentare una categoria (in questo caso quella femminile) arrogandosi così il diritto sia di lottare in nome di qualsiasi individuo appartenente a tale categoria e sia di decidere arbitrariamente quali siano i nemici di quella categoria. Sappiamo bene, per quanto ce lo ricordino le cicatrici, che chiunque critichi il femminismo viene pubblicamente accusato di essere un nemico delle donne. È l’arma più potente che questa ideologia utilizza: l’adesione di pancia da parte della categoria rappresentata. La sua forza di propulsione è dovuta a una miscela di odio e rabbia strumentalizzati a dovere tramite una falsa coscienza. Non è quindi un caso se una delle cose che mandano più in tilt le realtà femministe sono le donne che prendono una posizione contraria a esse. Esistono donne che hanno coraggiosamente preso posizioni avverse al femminismo e che sono state danneggiate dalle conseguenze delle loro dichiarazioni. Donne le cui storie vanno raccontate a gran voce e i cui nomi vanno ricordati. Donne come Erin Pizzey.

Viviamo in un occidente di forte stampo progressista e femminista, ma pochi conoscono questo nome. Eppure  stiamo parlando di una vera pioniera, di una donna che ha aperto il primo rifugio antiviolenza al mondo, di una persona che è sempre stata abituata a pagare il prezzo della propria onestà intellettuale (vero e proprio fardello quando ci si trova in contrasto con la massa). Erin Pizzey nacque a Qingdao, in Cina, nel 1939. Abituata a spostarsi fin da piccola a causa della professione del padre (un diplomatico irlandese), si trasferì con la famiglia a Shangai nel 1942 dove vennero fatti prigionieri dall’esercito giapponese e successivamente scambiati. “Anche se ricordo poco della mia infanzia, so di essere cresciuta in un mondo violento”, racconta Erin dei suoi primi anni di vita così duri. Dopo la liberazione, la famiglia Pizzey si spostò in sud Africa, poi a Beirut in attesa della fine della guerra a seguito della quale ritornarono a Toronto. Successivamente Erin continuò a muoversi, andando a vivere prima a Teheran e poi in Inghilterra, dove cominciò a frequentare la St. Antonty’s junior school e poi la Leweston School. La famiglia si trasferì nuovamente in sud Africa dove la ragazza frequentò la Dakar University laureandosi in inglese e francese.

Erin Pizzey
Erin Pizzey negli anni ’60.

Erin subì danni fisici e psicologici.

Nel 1958, l’indole attivista di Erin cominciò a manifestarsi, frequentò per la prima volta un raduno del movimento di liberazione femminile che si tenne a Chiswick (Londra), in casa di Artemis, un’organizzatrice locale che la coinvolse fin da subito. Pochi si sarebbero aspettati che, non troppo tempo dopo, Erin si sarebbe dichiarata in contrasto con Artemis e con il movimento stesso. Descrisse “un’irregolare e irrispettosa gestione dei soldi ottenuti con le donazioni”, denunce fatte per antipatia e pianificazioni di un attentato terroristico. Questa esperienza fece si che Erin si allontanasse da quegli ambienti, abituandosi fin da giovane a percorsi solitari, da sempre destinati a chi ha il coraggio di opporsi al conformismo in nome delle proprie idee. Nel 1971 aprì il suo primo rifugio antiviolenza, all’epoca ancora solo per donne, a Chiswick. Comincia a quel punto un periodo cruciale per la Pizzey, che poco dopo si appresta ad aprirne altri in zone limitrofe, tutti clandestini e ricavati tramite occupazione degli immobili. Nonostante alcuni ostacoli lungo il percorso, le nobili intenzioni di Erin vengono ben presto riconosciute arrivando fino alla House Of Commons (il parlamento britannico), dove Jack Ashley, al tempo membro del parlamento, dedicò un discorso di elogio nei confronti delle gesta della donna.

In questo periodo cruciale, la Pizzey cominciò a sviluppare quel pensiero così tanto scomodo ai movimenti di liberazione femminile. A seguito delle prime esperienze con le donne vittime di violenza, Erin cominciò a sostenere che la maggior parte dei casi di violenza sono reciproci e che le donne sono inclini alla violenza tanto quanto gli uomini. Ben presto le idee della coraggiosa attivista comportarono pesanti conseguenze.  L’associazione femminista Schotish Women’s Aid, ad esempio, “distribuì volantini nei quali vi era scritto che Erin accusasse le donne di provocare volontariamente la violenza maschile”; le calunnie diffamatorie e le minacce di morte dilagarono talmente da far scattare l’obbligo del controllo della sua posta da parte della squadra anti terrorismo. Provata dalla situazione, Erin subì danni fisici (con problemi cardiaci) e psicologici. La situazione arrivò ad essere talmente estrema da indurla a trasferirsi nuovamente, nel 1981, a Santa Fe in New Mexico.

Erin Pizzey
Le proteste femministe contro Erin Pizzey.

Lì Erin trovò il contesto per poter terminare il proprio scritto. Nel 1982 venne pubblicato il suo libro “Incline alla violenza”, al seguito del quale la famiglia di Erin tornò a ricevere minacce e accuse  diffamatorie. Il libro è infatti un vero schiaffo al pensiero femminista: esso sostiene la tesi secondo cui le donne avrebbero la stessa inclinazione alla violenza degli uomini, una presa di coscienza in forte controtendenza rispetto al conformismo degli ambienti nei quali nacque il suo attivismo. Un’evoluzione che probabilmente trova le sue radici nelle esperienze personali vissute in tenera età a causa della madre. “Senza alcun dubbio, mia madre con il suo temperamento esplosivo e i suoi comportamenti abusanti tracciò la sagoma della persona che sono oggi”,  racconta Erin in questo articolo intitolato “Come mai detesto il femminismo e sono convinta che abbia distrutto la famiglia”. “Quando il femminismo esplose”, scrive Erin, “io venni erroneamente vista come una che aderiva al movimento. Ma non sono mai stata una femminista perché, avendo vissuto la violenza di mia madre, ho sempre saputo che le donne possono essere viziose e irresponsabili tanto quanto gli uomini”.

Nonostante Santa Fe fosse una meta destinata alla scrittura, Erin venne coinvolta nella gestione di un rifugio nel quale ebbe a che fare con molte vittime di pedofilia. Di questa esperienza raccontò: “notai come ci fossero molte donne pedofile oltre che gli uomini, donne che però passavano sempre inosservate”. Di nuovo le sue osservazioni provocarono un’ondata di ripercussioni pubbliche, che la portarono a muoversi prima alle isole Cayman, poi a Siena e infine in Inghilterra, dove ritornò nel 1990 in condizioni economiche e mediche disastrate. Ad oggi Erin combatte ancora le sue battaglie, è conosciuta come un’attivista per la famiglia, i suoi rifugi (aperti sia a uomini che a donne) sono tutt’oggi presenti in gran Bretagna. Le sue battaglie e le sue vittorie, pagate a così caro prezzo, vengono sempre più riconosciute. Fino al 2004  ha patrocinato il ManKind Initiative, un ente di beneficienza per gli uomini vittime di violenza domestica. Nel 2013 ha preso parte al comitato editoriale dell’organizzazione “A Voice For Man”, scrivendo tredici articoli. Nel 2016 viene intervistata dalla documentarista Cassie Jay all’interno del film documentario “The Red Pill”. Molte altre sono state le sue attività in difesa di un maschile lacerato dallo squilibrio propagandistico e sociale che il femminismo ha causato, moltissime sono le cicatrici che Erin porta nell’anima. Per scriverle tutte non basterebbe un libro ma è importante che il suo nome venga pronunciato e ricordato a gran voce, perché è il nome di una persona coraggiosa che è stata capace di pensare con la propria testa e combattere con le proprie braccia contro un’ideologia che ha rovinato ben più di una vita lungo il proprio percorso.



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