di Claudio Accardi. “Spesso il pregiudizio porta a sostenere che la politica si limiti a mettere al primo posto i propri interessi, ma non è così, perché la politica è anche e soprattutto senso civico, attaccamento al territorio e voglia di vederlo migliorare”. Sono parole che Silvia Ladaga, figlia di Salvatore Ladaga, coordinatore di Forza Italia a Velletri, consigliere comunale e uomo il cui curriculum è una vera e propria miniera, tra incarichi pubblici e attività private, ha pronunciato alla presentazione del proprio comitato elettorale. Era presente anche lei, secondo la testimonianza dell’allenatore degli accusati rilasciata a “Repubblica”, la sera in cui il suo fidanzato Gabriele Bianchi, da cui ha già avuto un figlio e un altro ne aspetta, ha massacrato a morte Willy Monteiro. L’uomo tra l’altro, qualche mese fa era comparso su Rai3 nella parte del ragazzo coraggioso, del venditore ambulante di frutta e verdura che sfidava la crisi e riapriva la sua attività.
Quello che sappiamo, effettuando una ricerca in rete, è che Gabriele era l’incubo dei giovani della zona, che il suo stile di vita, ostentato sui social, non era compatibile con quello del venditore ambulante (attività che probabilmente ha svolto solamente il giorno di quella comparsata in TV) e che era stato oggetto di diverse denunce. Nelle sue immagini ripescate sui social, gran parte delle quali ora cancellate o nascoste, lo si vede in pose da duro, da “combattente”, orologi di marca al polso, barche, cavalli che sniffano cocaina, tatuaggi e tutto un impressionante armamentario di spacconeria e volontà di prevaricazione. A fronte di tutto questo, oltre a forzare il discorso parlando di azione razzista, ora si parla ovunque e insistentemente anche di “maschilità tossica”. E su questo occorre soffermarsi perché la “tossicità” di tali esemplari di maschio era piuttosto nota e conclamata ed è lecito quindi attendersi che, data la loro bassezza morale e culturale, saranno stati sicuramente dei reietti, emarginati e respinti dalle donne, giusto?
La virilità “forte e dura” nasconde solitamente una povertà estrema di virilità interiore.
Sbagliato. Facendo un giro tra le loro pagine nei social, oltre ad abiti firmati, ville, feste e quant’altro, non mancano le ragazze. Ma attenzione: si tratta di donne che non appartengono al sottoproletariato, bensì all’alta borghesia, proprio come Silvia Ladaga, che ora, per salvare la carriera politica verso cui era proiettata, da giorni fa sparire dal web foto, video e tutto ciò che fino a ieri aveva orgogliosamente messo in piazza di sé e della sua vita con Gabriele Bianchi. Queste fanciulle, così numerose attorno i machos di Colleferro, smentiscono insomma uno degli assunti principali della teoria femminista sulla “maschilità tossica”, quella secondo cui verso un uomo violento mai ci può essere una preferenza femminile. E se c’è, si tratta di “donne vittime” o di “patriarcato interiorizzato”. Eppure le testimonianze e le immagini parlano chiaro: quelle donne e ragazze sembrano tutto tranne che vittime, e se hanno interiorizzato il “patriarcato”, l’hanno fatto presto, volentieri e con un entusiasmo piuttosto evidente. Tanto da far pensare che non si trattasse per l’appunto di “patriarcato”, ma di qualcos’altro.
Di fatto, tolte alcune realtà marginali, è difficile ipotizzare l’impossibilità di scelta, soprattutto per donne che appartengono (come in questo caso) alle fasce d’oro della società. Difficile dimostrare che le donne oggi non abbiano la possibilità di accordare preferenze e tanto più scegliere chi frequentare, dopo un’attenta selezione che escluda dal carnet i “maschi tossici”. Eppure i picchiatori di Colleferro facevano stragi di cuori. Come sciogliere la contraddizione dunque? Facile: affermando un’ovvietà piuttosto evidente, ossia che la virilità non ha nulla a che fare con la “maschilità tossica”, che anzi è segno di una grave carenza di virilità. La vicenda di Gabriele Bianchi e compagni lo racconta bene, a partire dall’ostentazione della fisicità (di cui gli autori di questo omicidio e le loro compagne sono dei campioni). La loro non è una virilità autentica, ma solamente la farsesca estremizzazione di alcuni aspetti superficiali del maschile, che però distorcono nella sua sostanza più autentica. La virilità “forte e dura”, tutta muscoli ed estetica, nasconde solitamente una povertà estrema di virilità interiore, che si gioca su ben altri livelli.
Il tipo di uomo o di donna che scegliamo è il voto più importante che un essere umano possa fare.
Dice lo studioso Armando Ermini: “la cultura del corpo fine a se stessa e non come modellamento naturale derivante dalla pratica di uno sport, è un cedimento a una modalità di essere essenzialmente femminea: se la cultura del corpo in quanto tale può arrivare a essere grottesca anche nelle donne, fatta da un uomo diventa un cedimento totale ad una modalità di essere che non è originaria del maschile, ma che è essenzialmente del femminile. Questi aspetti sono da mettere in evidenza per non farci confondere con costoro sotto nessun punto di vista. In realtà, costoro, non solo danno ossigeno al femminismo, ma ne sono la controparte simmetrica e speculare”. In altre parole, i damerini muscolosi, tatuati, abbronzati, fisicati e portatori di una violenza meno che animale sono un prodotto dell’edonismo sterile inoculato a forza dalla cultura femminista all’interno della maschilità, per appropriarsene e poi snaturarla e sovvertirla. A ulteriore riprova che alle femministe non importa nulla dell’incolumità e del benessere delle donne, si ha nella vicenda di Colleferro un paradigma perfetto della dissipazione dei normali ed equilibrati rapporti tra generi. Il maschio narciso femminilizzato che esacerba, sfigurandole, alcune caratteristiche virili, accompagnandosi ad altrettante narcise, che tra occhiali firmati, selfie sul panfilo e seno siliconato, cercano di mascolinizzarsi dandosi tono con qualche saltuario tailleur e parlando di sociale e tutela del territorio.
La ben nota verità è che i tamarri e i violenti sono pochi, veramente pochi. Ma se alcune donne, inquinate dall’edonismo femminista e consumista imperante, accordano verso di loro la propria benevolenza, qual è il volto che la società rischia di assumere? Quanti giovani ragazzi saranno spinti ad aderire a questa idea distorta di virilità (femminea, appunto, in quanto basata sulla degenerazione narcisistica e fisica di alcuni lati della virilità) e scivolare verso la prevaricazione? Molte tesi antropologiche e sociologiche distinguono l’idealtipo del “maschio killer”, funzionale in passato alla sopravvivenza e per questo modello di elezione, dal maschio “nutricatore comunicatore”, più evoluto e maggiormente funzionale ad una società moderna e soprattutto “possibile”. La scelta verso un certo tipo di uomo o di donna come compagno di vita è un voto per l’ideale tipo di uomo e di donna che vogliamo; il tipo di uomo o di donna che scegliamo è il voto più importante che un essere umano possa fare. È un voto che inizia con il tipo di uomini e di donne che ammiriamo e vagheggiamo, continua con il tipo che sposiamo, si conclude con il tipo con cui facciamo dei figli.
Gabriele Bianchi e la sua cricca sono dunque il prodotto della femminilità tossica.
È assai arduo che gli uomini sviluppino dentro di sé il modello del nutricatore-comunicatore, fin tanto che coloro che dirigono la claque non applaudiranno quello stesso modello e fintanto che gli uomini non protesteranno contro il fatto di venire scelti per la loro capacità di vincere-uccidere e non per la loro capacità di nutricare-comunicare. Molte donne, in questo sostenute dal femminismo, continueranno a scegliere la versione riveduta e corretta del killer, l’uomo che “fa strage” nella sua professione, finché gli uomini non si ribelleranno. E gli uomini non protesteranno finché non vedranno il collegamento tra quel dovere e la morte prematura per infarto, cancro, suicidio e tutte le altre principali cause di morte. In breve, gli uomini non protesteranno finché non vedranno che continuare con il ruolo di “protettore” significa diventare il sesso di cui si può disporre a “piacere”.
Qui, nei fatti come quelli di Colleferro, abbiamo una dimostrazione plastica di tutto questo. Non si tratta della “bestia” selezionata perché nei suoi tratti esteriori ricorda una scelta che è stata funzionale alla sopravvivenza per migliaia di anni. Siamo davanti al trionfo completo del femminismo e alla degenerazione del femmineo che si è declinato come unico modo di stare al mondo: il narcisismo, il presenzialismo attraverso le immagini, la soggettività pura eletta a legge universale, la retorica vuota dell’impegno nel reale e a beneficio di tutti. Gabriele Bianchi e la sua cricca sono dunque il prodotto non della maschilità tossica, ma della femminilità tossica. Sono il risultato delle scelte fatte dal tipo di donna plasmata dal femminismo, la manifestazione del suo voto, espresso da dietro la barricata costruita dal femminismo per mettere siffatte scelte al riparo da ogni giudizio morale.