di Giorgio Russo. A Elizabeth, cittadina del New Jersey, a breve posizioneranno una statua dedicata a Marsha P. Johnson sul piedistallo rimasto vuoto dopo l’abbattimento da parte dei “Black Lives Matter” di una statua dedicata a Cristoforo Colombo. Ne dà notizia, tra gli altri, una Katia Riccardi sbrodolante piacere e compiacimento sulle pagine di Repubblica. Capita così: chi fa esercizio di propaganda, credendo profondamente in ciò che pensa, scrive e dice, prova un piacere quasi fisico così grande da trasparire esplicitamente oltre le righe. Ed è quindi con entusiasmo liquido che Riccardi ci informa della petizione firmata da 166 mila persone affinché la nuova statua campeggi vicino al municipio della città natale di questo attivista dei diritti GLBT ante-litteram, cancellando dalla memoria e dalle celebrazioni quell’oppressore bianco e violento che da Genova è arrivato a ficcare il naso fin oltre oceano.
L’articolo, come d’altra parte tutta la vicenda, è grottesco. Vi si snocciolano come tappe di un cursus honorum tutte le attività e le iniziative di Johnson, anzitutto quella di aver iniziato, nel 1969, una rivolta contro la polizia, rea di aver fatto irruzione (e poco importa che probabilmente fosse del tutto legittima) in un locale gay. Insomma una specie di Giovan Battista Perasso in salsa sessantottina che, invece di lanciare sassi agli austriaci occupanti di una città, lancia bottiglie contro i poliziotti, innescando una delle tante rivolte di quel periodo. Poco dopo fonda un’associazione di trans politicamente orientata all’estrema sinistra (allora era di moda), che viene oggi considerata l’embrione del movimento GLBT, sebbene sia accertato che la comunità gay e lesbica dell’epoca poco amasse i trans e le drag queen (così si definiva Johnson). Ma si sa che con il tempo e la giusta narrazione le bugie si trasformano in miti, quindi tutto in regola.
Forse una statua è decisamente troppo.
Nel corso della sua vita Johnson diede ricetto a molti omosessuali e transessuali ridotti in povertà, spesso di colore. Un altro suo merito, dice Repubblica, è essersi imposto a marciare davanti al corteo di uno dei primi “gaypride”, mentre gli organizzatori volevano relegare le drag-queen in fondo. Insomma, una lunga lista di indubitabili meriti per Johnson, la cui vita, dice ancora la nostra Riccardi, si interrompe a 46 anni “in circostanze mai chiarite”. In realtà basta leggere qualche documento storico americano per scoprire quello che Riccardi non dice, probabilmente per non perdere il posto, ossia che Johnson era uno schizofrenico paranoico che alternava la propria identità femminile a quella maschile, con crisi psicotiche anche molto violente, e che campava prostituendosi. Venne trovato morto nel Hudson River: un palese suicidio, capolinea di un’instabilità mentale incontrollata e virulenta. Ovviamente gli amici giurarono che “non era tipo da suicidarsi” e dopo un po’ saltarono fuori testimonianze che fosse stato aggredito “per motivi di omofobia”. Il tempo macina e, come detto, trasforma le bugie in mito: quelle voci di allora hanno riqualificato oggi il decesso come un possibile omicidio.
È innegabile il merito di Johnson nell’essersi fatto carico della rappresentanza dei diritti della minoranza di cui faceva parte. Così come quello di aver dato assistenza e aiuto ad altri transessuali. Indubbiamente ai tempi la vita di chi manifestava un orientamento sessuale diverso da quello maggioritario non era facile, sicuramente meno facile che oggi, dunque onore al merito. Ma nel computo generale forse una statua è decisamente troppo. Esiste tra le persone e le loro imprese una scala di valore che è nei fatti, è oggettiva. Cristoforo Colombo, nell’articolo di Repubblica definito “personaggio controverso”, passò buona parte della sua vita studiando, traendo dagli studi un progetto ai tempi considerato folle. Serve un piccolo sforzo per calarsi nell’epoca, ma va fatto: per tutti, andare oltre le Colonne d’Ercole significava incontrare la fine del mondo, un baratro popolato da mostri marini che annunciavano la caduta negli inferi. Arcaico, assurdo agli occhi contemporanei, ma del tutto ragionevole ai tempi.
È un esercizio di “cancel culture”.
Altri (i popoli vichinghi), molto prima di Colombo, avevano toccato le coste americane, qualcuno all’epoca lo sapeva. Anche Colombo l’aveva rilevato nei suoi studi e si era fatto convinto dell’esistenza di un varco attraverso cui raggiungere la ricca Cina. Una follia totale, pari a come se oggi qualcuno sostenesse di poter uscire dal sistema solare per trovare un nuovo pianeta terra da qualche parte nel cosmo. Eppure Colombo trova chi gli finanzia l’impresa, va in prima persona, fa rotta verso il buio e l’ignoto, rischia la pelle in una traversata inconcepibile ai tempi, fino a sbarcare a Santo Domingo. Il navigatore genovese è un esploratore, uno scopritore, non un colonizzatore. Quelli sono venuti dopo, ed è vero che hanno sterminato e saccheggiato (pure Colombo in verità contribuì, all’inizio), spesso sotto l’egida della croce di Cristo, ma se ciò non fosse accaduto, Marsha P. Johnson sarebbe nato in un Regno Unito e in un’Europa molto diversi dall’oggi, non educati dalle guerre, in primis quella d’indipendenza americana, al rispetto delle libertà e dei diritti umani come elemento fondamentale di evoluzione.
Cristoforo Colombo è la condizione senza cui Marsha P. Johnson non solo non sarebbe mai esistito, ma non avrebbe mai avuto la possibilità di organizzare una libera associazione, di portare avanti le proprie istanze e di contribuire alla definizione di un’identità e una dignità per le persone transgender. Tanto meno sarebbe stato libero di circolare, pur se in preda a crisi psicotiche schizofreniche. L’impresa di Colombo si celebra perché in ogni caso, con tutto il bene e tutto il male che ne è conseguito, è una tappa fondamentale dell’evoluzione umana. Ed è una tappa raggiunta con studio, impegno, coraggio, dedizione, determinazione, sprezzo del pericolo, voglia di esplorare e scoprire. Elementi che, sì, sono storicamente stati caratteristiche peculiari dell’uomo bianco eterosessuale europeo, categoria di cui Colombo faceva decisamente parte. L’esistenza stessa di un parco presso il municipio di un luogo chiamato Elizabeth, in uno stato chiamato New Jersey, in un paese chiamato Stati Uniti, lo si deve a lui. Un merito, fatti alla mano, superiore alla parte pur meritevole della vita di Johnson. Ecco perché abbattere la statua di uno ed elevare quella dell’altro è tanto violento quanto angosciosamente orwelliano, con tutte le celebrazioni in merito da parte dei politici locali. È un esercizio di “cancel culture” del tutto uguale alla dinamite talebana sui buddha di Bamyan. Con buona pace di Katia Riccardi e degli altri propagandisti di professione de “La Repubblica”.