di Giorgio Russo. Un’estate da dimenticare questa, quanto a infanticidi e madri responsabili della morte dei figli. Nel giro di poco tempo sono emersi due casi, entrambi in Sicilia: prima Gioele, quattro anni, a inizio agosto, poi Evan, nemmeno due anni compiuti, a metà mese. Delle due vicende, a tenere più banco sui media è stata quella di Gioele, a causa anche delle lunghe ricerche per individuarlo, dopo il ritrovamento del cadavere della madre Viviana Parisi. Dei tentativi immediati di colpevolizzare il padre abbiamo già detto (qui e qui), un automatismo mediatico e “social” spregevole a cui, per sua fortuna, Stefano, il papà di Evan, è rimasto immune.
Stefano era separato da tempo dalla moglie e quando il bimbo è morto era lontano chilometri. Non solo: in precedenza aveva depositato un esposto per denunciare le violenze subite dal figlio. Un esposto ignorato dalla Procura di Genova, sempre solerte, come tutte in Italia, a sottovalutare le denunce di uomini a carico di donne, ma a scattare come un soldatino se si tratta di qualche “codice rosso” tinto di rosa. E chissà che disdetta poi per le redazioni e i commentatori medi da social network che lui fosse così tanto al di sopra ogni sospetto. Nemmeno una piccola cattiveria, nemmeno un commento velenoso, nemmeno un’allusione possibile…
La madre ha le sue responsabilità.
Ma ciò che impressiona di più è lo spettacolo successivo ai fatti, quando emerge l’ipotesi che i delitti siano stati compiuti dalle due madri. Nel caso di Gioele, ad esempio, si è parlato in più articoli (esempi presi a caso: qui, qui, qui e qui) del ritrovamento delle sue scarpine “adagiate” presso un albero. Difficile che delle bestie selvatiche adagino le scarpine della preda, prima di sbranarla. Difficile pensare a “scarpine adagiate” in qualunque altra circostanza diversa da quella di una madre che, in preda a una crisi mistica o psicotica, prima o dopo aver soppresso il figlio, gli toglie le scarpe e le ripone presso a un albero, poi poi suicidarsi lanciandosi da un traliccio. Dopo l’incidente con l’auto, Gioele era sano, secondo i riscontri, ed è stato visto da un testimone allontanarsi tenendo per mano la madre. Sembrerebbero insomma non esserci alternative ragionevoli all’ipotesi che Viviana abbia ucciso suo figlio.
Nel caso di Evan non c’è soltanto l’esposto del padre Stefano, ma anche un’indagine della magistratura a carico della madre dopo una segnalazione del pronto soccorso, dove la piccola vittima era stata portata dopo l’ennesima gragnola di botte. E poi il sangue sul cuscino del lettino, i messaggi di lei e del suo nuovo compagno all’ex marito dove minacciavano di uccidere il figlio se Stefano non avesse cambiato residenza e non avesse pagato il mantenimento. Qui c’è il ruolo attivo del nuovo compagno della donna, indubbiamente, ma la madre parrebbe avere le sue responsabilità, talmente gravi che i magistrati hanno proceduto sullo stesso capo d’imputazione per entrambi, il che ha quasi del miracoloso.
Se un pregiudizio e uno stereotipo c’è, allora è a favore del femminile.
Ha del miracoloso perché, in casi simili, tutti, e con “tutti” intendiamo non solo i soliti media mainstream, ma anche le cosiddette autorità, dalla Polizia ai magistrati, in genere fanno a gara a chi decolpevolizza di più e meglio la donna responsabile di un reato grave. Il caso di Viviana è emblematico. Nonostante le evidenze, il procuratore di Patti ancora dichiara che “non è ancora possibile formulare serie ipotesi su morte Gioele”. La magistratura, come i media, si appiglia a qualunque ipotesi pur di rimuovere dal tavolo l’idea che una madre abbia soppresso il figlio. Si può comprendere dal lato umano se quel tipo di meccanismo scatta nei congiunti della donna, ma i salti mortali che le autorità e i media stanno facendo per escludere che Viviana abbia ucciso il figlio Gioele in molti casi sfiorano il ridicolo. E non conta che anche Viviana sia morta. Magistrati e Polizia stanno lì per scoprire la verità dei fatti, non per celebrare rispettosamente la memoria dei defunti.
A quel tipo di trattamento privilegiato sembra volersi appigliare anche Letizia Spatola, la madre di Evan, dichiarando di essere stata “plagiata” dal suo nuovo compagno. Strano che nessuno al momento le dia corda. Forse, per converso al meccanismo assolutorio scattato per Viviana, Letizia paga pegno del fatto di essere ancora viva, o forse è solo questione di tempo perché venga dichiarata “incapace di intendere e di volere”, mandata in vacanza un annetto in qualche struttura e poi liberata. Non è chiaro in ogni caso quale meccanismo mentale scatti negli inquirenti e nei mass-media quando si occupano di vicende come queste. L’unica cosa certa è che, nei rari casi in cui è un uomo a uccidere i figli, si hanno vere e proprie crocifissioni, ripetute e accanite. Un modo per capire questi automatismi antimaschili potrebbe venire da uno studio americano di un paio di anni fa, che ci è stato inviato da un caro e attento lettore. Tramite diversi test la ricerca rileva l’esistenza radicata di un pregiudizio antimaschile, nei media, nelle persone comuni e in chi ha ruoli di responsabilità, con una connessa e significativa mancanza di empatia quando al centro di un fatto c’è un uomo, magari vittima di donne o di altri uomini. Di contro, se un pregiudizio e uno stereotipo c’è, allora è a favore del femminile, che è monopolista dell’empatia. Niente di nuovo, per carità, ma vederlo messo nero su bianco da una ricerca scientifica fa sempre molta impressione. Restano da attendere le paladine e i paladini contro gli stereotipi che, studio americano alla mano, si schierino con noi per ottenere che gli uomini vengano trattati da esseri umani e le colpevoli punite come legge imporrebbe.