di Giorgio Russo. Elisa Pomarelli, lesbica ventottenne di Piacenza, è stata uccisa un anno fa da Massimo Sebastiani. Una vicenda terribile e oscura: i due erano molto amici, lui era noto come “il gigante buono” perché apparentemente incapace di fare del male. Invece ha ucciso e ora è sotto processo per omicidio volontario e distruzione di cadavere. In quanto reo confesso e previa perizia psichiatrica, a Sebastiani è stato concesso il rito abbreviato, che comporterà uno sconto di pena. La perizia nasce probabilmente dall’unico elemento utile a individuare il movente del delitto, ossia la sola ammissione di Sebastiani: “ero innamorato, ero ossessionato da lei”, ha detto appena arrestato, tra le lacrime, pentito. Dunque è possibile che lei, essendo lesbica, l’abbia respinto e lui, persona meno equilibrata di quanto sembrasse, l’ha uccisa. Una reazione smodata e assassina frutto di una labile condizione psichiatrica, insomma. Nei tempi andati si sarebbe parlato di raptus, parola ora bandita dal linguaggio pubblico. Oggi si parla, anzi si deve parlare di “femminicidio”. E il delitto Pomarelli lo è? Chissà. Il problema è che non esiste una definizione unica, stabile e convincente di “femminicidio”. Se si prende quella usualmente adottata dalle Forze dell’Ordine (omicidio conseguente a un rifiuto amoroso, all’incapacità di accettare una separazione, a un deviato senso del possesso), sì, il delitto Pomarelli è decisamente un “femminicidio”. Ed è proprio qui che scatta la tagliola delle contraddizioni.
La concessione del rito abbreviato infatti ha scatenato le ire e le proteste sia delle femministe che del mondo GLBT. Ne dà conto il Corriere della Sera che, nel parteggiare apertamente per le proteste, compila un articolo che rappresenta bene il grado di falsificazione necessario al regime rosa-arcobaleno per sopravvivere. Secondo alcuni centri antiviolenza (incredibilmente ammessi come parte civile al processo) e associazioni di lesbiche, infatti, la magistratura “ancora fatica a capire e quindi a perseguire i femminicidi”. Questo perché, secondo una legge dell’anno scorso, il rito abbreviato dovrebbe essere escluso per i reati puniti con l’ergastolo. Tra questi c’è l’omicidio volontario aggravato e quello di Elisa Pomarelli lo sarebbe perché, secondo le associazioni, il “femminicidio” è un’aggravante, “sebbene la legge non lo nomini esplicitamente”. Fa sorridere che qualche accolita ideologicamente orientata si assuma il diritto di decidere cosa una legge intenda in modo implicito, e il sorriso si allarga leggendo la legge stessa, che invece esplicita chiaramente i casi di aggravante: quando il delitto avviene tra persone legate da relazione affettiva (coniugi, anche separati, conviventi o persone unite civilmente). Se non fosse che dietro a tutto questo c’è una donna uccisa, il sorriso diventerebbe una grassa risata nel leggere la chiosa di un’associazione internazionale di lesbiche: “l’Italia non riesce a tutelare adeguatamente le donne lesbiche, anche al momento di scrivere le leggi”. Fa ridere perché sottintende che il Codice Penale e le procedure annesse dovrebbero tener conto delle preferenze sessuali di vittime o carnefici per articolare le proprie pene. Ma anche per un’altra ragione.
Esistono morti ammazzati di serie A e morti ammazzati di serie B.
“Il femminicidio”, dice una esperta giuridica (nientemeno) dell’associazione lesbica, “non è l’omicidio della moglie o della compagna in quanto tale, ma l’omicidio di una donna in quanto donna, e questo deve includere le donne lesbiche ammazzate perché non disponibili alle attenzioni di un uomo”. Dopo l’interpretazione a proprio piacimento di una legge, ecco dunque la personalizzazione del concetto di “femminicidio”. Inventato dal marketing femminista per ottenere più attenzione e un’aura di “specificità” per la polarità femminile, ora il mondo lesbico cerca di appropriarsene, inconsapevole che già è pressoché impossibile (se non con svariate forzature processuali) stabilire che una donna sia stata uccisa “in quanto moglie/compagna/convivente”, figuriamoci provare che sia accaduto “in quando donna lesbica”. Eppure la lamentela c’è ugualmente. Tutto dipende, si dice, dal fatto che le leggi “si formulano avendo uno standard in testa”. Ma va? Qualche anno fa si tuonava (giustamente) contro le leggi ad personam e ora si pretenderebbero leggi ad lesbicam? Insomma, già di recente l’atteggiamento del mondo lesbico aveva portato scompiglio nel fronte femminista, ora, con questa sortita scomposta nel già nebuloso campo del “femminicidio”, di nuovo le lesbiche innescano contraddizioni che finiscono per strangolare l’alleanza tra femminismo e supporter della teoria queer.
Buffa ed emblematica dello stato del giornalismo italiano la parte dell’articolo dove la giornalista Elena Tebano accerta che il movente dell’assassino fosse l’orientamento lesbico di Elisa citando un altro articolo, per altro un editoriale (cioè un’opinione di chi scrive, non un fatto), sempre pubblicato dal Corriere della Sera. “Citarsi addosso”, lo chiamava Woody Allen. Autoreferenzialità in assenza di argomenti lo potremmo chiamare noi. Il movente di Sebastiani è piuttosto evidente, anche per le sue stesse ammissioni: era innamorato e ossessionato, incapace di accettare un no, qualunque ne fosse il motivo, che si trattasse dell’orientamento saffico di Elisa o di qualunque altra ragione. Una verità dei fatti che però, se affermata, non permetterebbe alla giornalista di agganciarsi all’inevitabile auspicio delle associazioni GLBT: “è importante intervenire”, dicono, esigendo la stessa primazia penale che già le femministe perseguono, “approvando il progetto di legge Zan sui crimini d’odio aggravati dal pregiudizio contro gay, lesbiche, bisessuali e trans”. Alla fine tutti i tripli salti carpiati dell’associazionismo e, a traino, del Corriere della Sera, lì volevano andare a parare: trasformare un orribile delitto dettato dallo squilibrio mentale e da un rifiuto amoroso in un delitto a sfondo omofobo, per fare l’endorsement a una legge che, se fosse in vigore, falserebbe impropriamente il quadro processuale di Sebastiani e lederebbe il complesso delle sue tutele giuridiche in quanto imputato di reato. Ma soprattutto imporrebbe all’ordinamento e all’opinione pubblica un concetto inaccettabile: esistono morti ammazzati di serie A e morti ammazzati di serie B.