di Giuseppe Augello. Questa è la storia di Angelo, un padre separato, ora felicemente risposatosi, e della sua ex compagna, madre del suo figliolo oggi di 16 anni. Fino al 2011 Angelo aveva una compagna, che amava molto ed appassionatamente, nonostante le sue intemperanze e i suoi atteggiamenti manipolatori e spesso violenti, infine tesi a distruggere il fortissimo attaccamento che esisteva tra padre e figlioletto di 9 anni. Sin dalla sua nascita, infatti, il bimbo si era legato particolarmente al papà, perché paziente, accondiscendente, disponibile compagno di giochi e di letture e di visione di programmi TV istruttivi. Ciò provoca nella madre un enorme fastidio, reazioni inconsulte e forte acrimonia verso il figliolo colpevole di volgere il suo amore rispettoso solo alla figura del padre dimostrando invece spesso insofferenza per la madre.
Lei lo aggredisce spesso con severità, con punizioni anche corporali eccessive per l’età del bambino. Rivolgendosi al padre, lo accusa nel mentre di non essere suo complice quando punisce il minore e di volere staccare il bambino dalla madre. Spesso passando dalle parole ai fatti, non lesina schiaffi e sputi in faccia al compagno. Angelo già da anni tenta di calmierare il rapporto con la compagna frequentando varie terapie di coppia, ma con l’unico risultato di essere consigliato a separarsi o di non ricavarne alcun vantaggioso consiglio. Peraltro Angelo vive a sua volta col terrore di perdere il figliolo così legato a lui, che soffrirebbe immensamente se lui si allontanasse da casa, e teme che lei si allontani un’altra volta oltreoceano col minore, come già tentato anni prima.
Nel 2011 la madre comincia ad adottare uno strano comportamento di mobbing familiare. Nega il dialogo, sparisce col bambino senza dare traccia per giornate intere, adotta un mutismo assordante alla richieste di spiegazioni del compagno. Fino al mese precedente all’inevitabile fatto. La madre annuncia di volere la separazione e di volere partire per il suo paese. Angelo si oppone e la invita a rivolgersi al suo e al di lei legale per la separazione, anche perché intende negare il consenso alla partenza. Per tutta risposta il giorno dopo e a sua insaputa la compagna lo denuncia alla Procura della Repubblica per lesioni e maltrattamenti. Nonostante questo continua ancora un mese a convivere con lui. Passa un mese dalla denuncia, con alcuni tentativi di Angelo tesi ad una impossibile riconciliazione, e la “signora” scompare di casa col minore allora di nove anni. Angelo rientra a casa e non trova traccia né della compagna né del figliolo, li aspetta invano, li cerca nei dintorni, e poco prima di mezzanotte si reca dai Carabinieri a denunciare il fatto.
Essendo la madre straniera, e avendo già tentato di trasferirsi al suo paese definitivamente col figliolo, (all’epoca senza riuscire a sostenere la sua decisione legalmente), comincia a sospettare che la sua compagna abbia posto in essere un altro tentativo di fuga. Passano alcuni giorni e alcune notti in vane ricerche, finché Angelo scopre una notifica inusualmente anonima nella sua cassetta postale per una udienza al tribunale civile ordinario di Roma. E’ ovvio che si tenta di non notificargli nulla. Strano comportamento della cancelleria. Pensa quindi che la compagna abbia presentato una semplice istanza di separazione e si reca in tribunale col suo legale. In realtà la sua presenza provoca stupore e sconcerto nella controparte che sperava in un provvedimento “inaudita altera parte”.
Angelo si è preparato bene e presenta le sue prove di violenza della compagna, ma scopre infine che la stessa si è rifugiata in un centro antiviolenza! Lo stordimento e lo sconcerto di Angelo sono tali che gli occorreranno vari giorni per capire cosa sia successo e varie spiegazioni pazientemente fornitegli dal suo legale. La signora da almeno due anni si preparava alla fuga e legali compiacenti le avevano consigliato di denunciare il padre di suo figlio, che tanto esisteva una situazione di violenza (non è importante l’origine, tanto è assiomatico che ne sia lui il responsabile) per potere allontanarsi indisturbata dall’Italia. Difatti ripercorre tutte le provocazioni subite dalla compagna nell’ultimo anno, le ricollega al suo vittimismo e alle sue violente intemperanze precedenti e capisce che la compagna ha attivato vari professionisti dei consultori e dei centri antiviolenza, sotto una attenta e paziente regìa del suo avvocato (donna).
Inizia per Angelo un calvario. Il giudice ordina immediatamente incontri protetti col figlio, che solo fortuitamente non vengono affidati ai Servizi Sociali che li avrebbero fatti avvenire dopo mesi e mesi, ma ad un servizio che vi provvede dopo “soli” 40 giorni, durante i quali Angelo si tortura e finisce sotto antidepressivi. Finalmente il ragazzino incontra il padre e gli rivela di essere stato portato via da casa con l’inganno dalla madre, che gli aveva parlato di andare a fare visita a una amica, in realtà trascinandolo al centro antiviolenza. La sera del rapimento il bambino aveva pianto e si era disperato, volendo tornare a casa dal suo papà. Non capiva il perché del suo allontanamento. Prende persino a calci le operatrici del centro antiviolenza. Le stesse scriveranno in seguito sulla violenza del minore addebitandola alla “violenza assistita” dal padre. E negheranno al processo di avere interagito con lui, mentre si adoperano con ogni mezzo per convincerlo a restare al centro.
Avviene però che il giudice civile, nel 2011, neanche di fronte alla denuncia-querela alla Procura contro l’uomo, o dinanzi all’istanza per l’allontanamento presentata dalla donna, si sente convinto. La presenza dell’uomo in udienza con la sua testimonianza lo frena e non concede immediatamente l’allontanamento ai sensi della legge 154/2001. Inizia invece una lunga istruttoria. Intanto il servizio incaricato degli incontri protetti comincia a osservare il forte legame esistente tra padre e figlio, con quest’ultimo che aspetta con ansia di rivedere ogni volta il papà. E certificano tutto questo in numerose relazioni quasi mensili, finché non chiedono essi stessi al giudice di liberalizzare la frequentazione tra padre e figlio. In quei mesi il giudice civile, intanto, non decide ancora sull’allontanamento, ma dopo 5 mesi scade il periodo nel quale la donna può essere ospitata gratuitamente al centro antiviolenza. Un problema. La direttrice del centro si dà da fare e invia una istanza al giudice accompagnandola con una relazione nella quale si accusa il padre di aggirarsi minacciosamente nei dintorni del centro stesso. Il giudice così risolve la questione e commina nel 2012 l’allontanamento per sei mesi all’uomo mentre la madre prende possesso dell’abitazione familiare.
Nonostante ciò gli incontri padre e figlio vengono liberalizzati dal tribunale e ricondotti a un “normale diritto di visita”. Il tribunale dei minori infatti concede l’affido pienamente condiviso, nel 2013, viste le relazioni del rapporto padre-minore (chissà perché solo tale rapporto passa sotto esame, e mai quello madre-minore) e con scorno della controparte femminista. Angelo combatterà a questo punto una nuova battaglia per ottenere la frequentazione paritaria, che lui e il figlio pretendono. Entra in contatto anche con varie associazioni di padri. Tale circostanza viene stigmatizzata dalla controparte. Nel 2016 finalmente Angelo vincerà la sua battaglia grazie all’audizione del minore, ormai 14-enne, presso il giudice, che accontenta ogni sua richiesta. Ma succede anche qualcos’altro, quell’anno. Dopo 5 anni di processo penale, Angelo viene condannato per maltrattamenti, (ovviamente con la condizionale) anche se viene assolto per lesioni. Nessuna prova del reato, ma solo testimonianze di quanto rivelato dalla stessa donna alle operatrici e a due amiche fidate. Al processo infatti sono intervenute come testi tutte le operatrici del centro antiviolenza cui la donna si era rivolta nel 2011, che la consigliavano riguardo alla strategia da adottare, che certificavano che la stessa era impaurita, senza mai avere avuto prova dell’agire dell’uomo, peraltro rimasto a loro sconosciuto.
E succede anche qualcosa d’altro, per gli appassionati di “fouilleton”. La ex compagna rivela ad Angelo nel 2016 di avere compiuto un errore nel denunciarlo, perché vorrebbe ancora vivere con lui e assicurare la famiglia al figliolo. E lo rimprovera e critica aspramente di essersi intanto, l’uomo, risposato, impedendo la ripresa della convivenza. Angelo, che finalmente ha trovato la pace coniugale con la nuova meravigliosa e bella moglie, rifiuta con garbo l’invito. E concentra tutte le sue energie anche economiche per far dimenticare al figliolo la disavventura, che purtroppo lascerà comunque un segno nella sua psiche. Questo è un caso dove, a legislazione corrente, nonostante la denuncia di maltrattamenti e quindi l’accusa all’uomo di essere un violento, almeno la verità sul suo rapporto col figliolo è venuta fuori.
Questo è un caso dove neanche il DDL 735/2018, così come nella sua stesura originale, poiché in presenza di un provvedimento di allontanamento, avrebbe potuto garantire al padre e al figlio una frequentazione paritetica sin dall’inizio della separazione. Non c’era nulla che Angelo potesse fare, perché un padre non è da considerare innocente fino a prova contraria, ma è vero viceversa. E nessuna legge potrà cambiare le cose finché sarà vigente il colpo di Stato mediatico nazifemminista. Questo è infatti uno di quei casi dove secondo le accuse pervicaci delle nazifemministe, cui i media fanno da megafono e grancassa, non si deve tentare alcuna mediazione. “lo dice la Convenzione di Istanbul”. E in un caso simile non si dovrà mai consentire, secondo la narrazione vigente, che i figli entrino in contatto col padre liberamente dopo la separazione. Mai. Lui è un violento, potrebbe far loro del male, infatti è stato già denunciato. Figuriamoci poi dopo la condanna in primo grado (da parte di un giudice miope e incapace di motivare legittimamente la sua condanna, secondo il legale pluriesperiente di Angelo). Ma Angelo l’ha ottenuta, la sua frequentazione, e non vi rinuncerà mai perché faticosamente ottenuta insieme al figlio.
Questa è una dimostrazione di quanto arroganti e false siano le tesi femministe tese a trattare un padre denunciato, da subito, come un presunto colpevole di tentato femminicidio, o un colpevole garantito. E che va gettato in galera preventivamente buttandone via la chiave. Se Angelo non ha subito questo linciaggio, è solo per avere profuso tutte le sue energie nell’impari battaglia legale per la paternità. Ingiusto prezzo da lui pagato e che ha assorbito ogni suo avere minando il suo diritto ad un giusto riposo ormai alle soglie della pensione. Un’ultimo particolare. Dispongo di tutta la documentazione legale a riprova che quanto sopra narrato della vicenda di Angelo corrisponde alla pura e semplice verità.