«Osservando dei minatori di carbone al lavoro, ci si rende conto momentaneamente di come gente diversa abiti in universi differenti. Laggiù, dove si scava il carbone, esiste una specie di mondo a sé stante di cui uno può vivere tutta la sua vita senza mai aver udito parlare. Probabilmente una maggioranza di persone preferirebbe addirittura non sentirne parlare. Tuttavia esso è la necessaria contropartita del nostro mondo alla superficie. Praticamente tutto ciò che facciamo, dal mangiare un gelato ad una traversata dell’Atlantico, e dal cuocere una pagnotta a scrivere un romanzo, sottintende l’uso del carbone, direttamente o indirettamente. Per tutte le arti della pace il carbone è necessario; se poi scoppia la guerra, lo è ancora di più. In tempo di rivoluzione il minatore deve continuare a lavorare o la rivoluzione dovrà fermarsi, perché la rivoluzione esattamente come la reazione abbisogna di carbone. Qualunque cosa possa accadere alla superficie, piccone e pala devono continuare senza una pausa, o almeno senza fermarsi per più di qualche settimana al massimo. Affinché Hitler possa marciare al passo dell’oca, il Papa denunciare il bolscevismo, i tifosi di cricket affollarsi da Lord’s e i poetini effeminati grattarsi reciprocamente la schiena, il carbone deve continuare a saltar fuori. Ma in complesso noi non ce ne rendiamo conto; sappiamo tutti che “dobbiamo avere il carbone”, ma ben di rado o mai ci ricordiamo di cosa significhi procurarsi il carbone. Sono qui, seduto a scrivere davanti al mio confortevole fuoco di carbone. È aprile, ma ho ancora bisogno di fuoco». Così scrive George Orwell nel suo romanzo La strada di Wigan Pier del 1937.
Ciò che scrive George Orwell sui minatori di carbone può essere applicato in realtà a qualsiasi altro mestiere pericoloso e/o di fatica: pescatori, tagliaboschi, riparatori di tetti, operai siderurgici, fognaioli, lavoratori dell’edilizia, allevatori, carpentieri… Secondo Orwell le persone che vivono nel “mondo alla superficie” raramente sono consapevoli del sacrificio e del costo che questi lavoratori spendono per garantire il loro alto e confortevole standard di vita. Per uno scherzo del destino i minatori di carbone di cui parla Orwell sono tutti genuinamente uomini, e ciò vale quasi in esclusiva per tutti i mestieri pericolosi e/o di fatica elencati precedentemente, in vigore nel 1937 quando Orwell scrive la sua opera. Detto in altre parole, il “mondo alla superficie” era popolato perlopiù da donne, anzi penso di non sbagliare se affermo che tutte le femministe abitavano in questo “mondo alla superficie”. Tutto quello che le donne (e le femministe!) facevano, da mangiare a scrivere a passeggiare in sicurezza, sottintendeva il frutto del sacrificio maschile, sacrificio del quale raramente «avevano udito parlare», anzi «preferirebbero addirittura non sentirne parlare».
Le femministe e gli emarginati.
Per le femministe (e le donne in genere?) il sacrificio maschile è un atto dovuto, scontato. Loro esigono che il loro confortevole standard di vita e la sicurezza che circonda le loro vite siano garantite dal sacrificio maschile, che loro raramente vedono e preferiscono spesso ignorare. È ovvio per loro – e per tutti, aggiungo io – che sono gli uomini a dover sprofondare nelle miniere con piccone e pala, a dover difendere il territorio o a farsi avanti per spegnere l’incendio. L’estrazione e il trasporto del carbone non è un problema femminile, la costruzione del mondo non è un problema femminile, sono faccende maschili. Le femministe raramente si sono occupate di queste faccende nei loro scritti, tranne che per giudicarle. Il benessere o meno che traggono dal carbone e dalla costruzione maschile del mondo è il loro problema. «…la creazione, la costruzione, la difesa, la sopravvivenza, non appartengono al mondo della donna né alla narrazione femminista. In questa narrazione, la donna si trova a vivere in un mondo già costruito, già “fatto”: il raccolto è già raccolto, i terreni dissodati, le strade battute, le spezie arrivate dal Lontano Oriente, i ponti innalzati, gli stati costituiti, le case fabbricate, le cattedrali erette, le nazioni difese, le reti idrauliche e i canali di irrigazioni costruiti. I bisogni primari, la fame, la sete, il freddo, le difficoltà fisiche, le condizioni lavorative e i rischi di infortunio e di morte sempre in agguato in molti mestieri, sono per lo più argomenti trascurati, sorvolati, quasi non riguardassero le donne, al riparo in casa, protette dalle inclemenze, dai pericoli e dalla natura selvaggia.» (tratto dall’opera La grande menzogna del femminismo, pp. 112-113).
George Orwell non è stato soltanto uno scrittore straordinario, è stato uno scrittore impegnato. Per denunciare le misere condizioni dei minatori, descritte nel romanzo La strada di Wigan Pier, l’autore svolse un’indagine nelle zone più colpite dalla depressione economica d’Inghilterra, indagine che lo portò, nei primi mesi del 1936, tra i minatori di carbone dell’Inghilterra settentrionale. Lui visse con i minatori, e scese con loro nelle profondità della terra per capire, per vedere. Già nel 1928 era andato a Parigi, nel suo intento di poter osservare con i propri occhi i bassifondi delle grandi metropoli europee. In questo periodo lavorò come sguattero in alcuni ristoranti e sopravvisse grazie alla carità dell’Esercito della Salvezza e sobbarcandosi lavori umilissimi. Il risultato, il romanzo Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933). George Orwell viveva e scriveva ancora durante il periodo della prima ondata del femminismo, che si conclude con la pubblicazione de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir nel 1949. Lui fece ciò che le femministe della prima ondata non fecero mai, indagare e immergersi nelle zone disagiate per capire chi era veramente bisognoso. Virginia Woolf, anche lei una scrittrice, corrispettiva di George Orwell nel mondo femminista, visse per denunciare la condizione delle donne tra viaggi, feste e vacanze. In nessun momento a Virginia Woolf, né a nessun altra femminista, venne in mente di immergersi nel mondo degli emarginati per capire chi veramente era meritevole di denuncia. Lei, come tutte, usufruì comodamente del carbone.
Femminismo: roba da ricchi.
Come ho già scritto altre volte, il femminismo della prima ondata, nato principalmente negli Stati Uniti e in Inghilterra, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, fu un movimento associativo, di raduni e di incontri di donne conservatrici di classe medio-alta, con molto tempo libero e senza grandi impegni lavorativi faticosi da realizzare, generosamente mantenute dal lavoro di mariti, genitori o figli. Per quanto assurdo possa sembrare, il femminismo della prima ondata nasce grazie al lavoro e al sacrificio maschile, alla possibilità data a queste donne di avere del tempo libero e di vivere agiatamente e in sicurezza. Al contrario di George Orwell, queste donne erano incapaci di vedere molto più in là del loro naso. Per loro, il mondo esterno si fermava nel loro mondo femminile, nella loro realtà ridotta e completamente parziale. Ancora oggi a nessuno studioso viene in mente di chiedersi come mai George Orwell, paradigma del grande denunciatore dell’ingiustizia sociale e dei regimi totalitari della prima metà del XX secolo, non abbia mai difeso né catalogato nelle sue opere la categoria “donne”. Le donne, in quanto donne, nella sua opera, non esistono. Non si può dire che George Orwell non abbia conosciuto di prima mano la condizione dei più bisognosi, dei più «schiavi» della società, ma tra questi la “condizione della donna” non affiora. E ciò non è un problema unicamente di George Orwell, ma di tutti i grandi denunciatori dell’ingiustizia sociale prima di lui. Charles Dickens, ad esempio, un altro totem della denuncia sociale dell’Ottocento: i suoi protagonisti di miseria sono indistintamente maschi e femmine, con una prevalenza maschile. O persino Cristo, che non difese mai le donne in quanto donne, nelle sue prediche la categoria “donne” non è mai esistita: gli afflitti da miseria e i degni di pietà sono indistintamente uomini e donne. Tra loro, nessuno ha denunciato in esclusiva la condizione delle donne, ma la condizione dei miserabili, dove giacevano molto numerosi uomini, e anche donne. La categoria “donne” e la condizione della donna hanno incominciato ad esistere quando donne benestanti conservatrici della seconda metà dell’Ottocento hanno incominciato a riunirsi per lamentarsi della propria condizione, intorno al confortevole fuoco di carbone del caminetto.