L’immenso Sean Connery non era ancora freddo nella bara che già gli deturpavano uno dei personaggi simbolo tra quelli da lui interpretati: l’agente 007. Notizia sparata su tutti i media e i social: il prossimo James Bond sarà una donna. Di più: sarà una donna e di colore. Il ruolo di punta della venticinquesima puntata della saga della spia con licenza d’uccidere sarà infatti attribuito all’attrice Lashana Lynch, 32enne afroamericana, che annuncia la notizia ripetendosi di essere felice di far parte di un “momento che sarà rivoluzionario”. Non è felice perché acquisisce un ruolo mitico nel mondo del cinema, perché è una grandiosa opportunità artistica di mostrare le sue capacità attoriali, e nemmeno (sarebbe legittimo) perché spera di guadagnare un ricco cachet. No, è felice perché farà parte di un momento rivoluzionario. Le parole non sgorgano a caso: la soddisfazione della Lynch è infatti la stessa del popolaccio che, all’epoca del Terrore seguente alla Rivoluzione Francese, ammirava le teste mozzate esibite dal boia dopo le esecuzioni alla ghigliottina. E qui a essere mozzata, parole della stessa Lynch riportate dallo scodinzolante Corriere della Sera, sarebbe quella cosa (purtroppo per lei inesistente) chiamata “mascolinità tossica“.
Tutto questo nonostante sia certo che “No time to die”, questo sarà il titolo del nuovo film di 007, sarà un flop clamoroso. L’ennesimo della saga ormai abusata di James Bond, ma soprattutto l’ennesimo di questa nouvelle vague cinematografica (ma anche letteraria) che rivisita in chiave di genere o di razza personaggi di fantasia o storici realmente esistiti, o cerca di imporre eroine in film per loro natura destinati ad avere degli eroi o in remake di pellicole con protagonisti maschili. Così abbiamo le Ghostbusters, le supereroine, le Dottor Who, le ladre di “Ocean’s Eight”, le “Expendabelles”, le terminatoresse, o più in generale film incentrati su figure femminili protagoniste di intrecci dove la donna appare iperattiva, risolutiva, “motore” delle vicende, e ancora riletture storiche che sviliscono a forza le figure maschili esaltando quelle femminili, come l’ultima porcata di Kenneth Branagh sul povero William Shakespeare. Il filo rosso che lega tutte queste produzioni è il fatto che sono “di successo” quando riescono a pelo a recuperare i soldi spesi per realizzarli (e la 007 di Lashana Lynch non farà eccezione). Comprendere i motivi di questi insuccessi aiuta a inquadrare il perché l’industria cinematografica si pieghi a investire così tanto in perdita, sia dal lato economico che dal lato creativo, consentendo al conformismo femminista di dettarle legge.
“Anche noi donne sappiamo fare”…
Il problema è in un carattere scritto nel DNA di ciascuno di noi, cesellato in secoli di evoluzione e che ci impone una percezione che non può essere mutata nemmeno dalla più martellante propaganda: la donna si qualifica per ciò che è, l’uomo per ciò che fa. Se si invertono i termini, si percepisce una distonia remota ma molto forte. Wonder Woman che salta, corre, corca di mazzate legioni di uomini, suscita zero partecipazione emotiva e qualche ghignata del tutto simile alle risate femminili di fronte a uno strip-tease maschile. La donna che fa, il corpo femminile che cerca di qualificarsi nell’azione, stonano alla percezione perché alla donna non è richiesto di fare per qualificarsi: le basta essere. Anche per questo gli sport femminili attirano meno di quelli maschili, a meno che non vi prevalga l’elemento estatico (come ad esempio nel nuoto sincronizzato). Dunque le donne sono “inferiori”? Niente affatto, sono diverse, sono progettate diversamente. Lo dimostra la validità dell’esempio contrario: l’uomo che si fa estatico risulta distonico rispetto alla percezione collettiva. Lo spassoso Ben Stiller di “Zoolander” fa scompisciare dal ridere, è vero, ma di per sé il suo personaggio risulta antipatico, fastidioso, perché di fatto non fa nulla, basa tutto il significato di sé sul fatto di essere e non di fare qualcosa.
Pare evidente che la natura ci abbia impostati, uomini e donne, in modo diverso, palesemente complementare. Ciò che l’uno è poco portato a essere/fare, lo può essere/fare l’altro. Per questo non si dà il concetto antagonista di superiore/inferiore, se non in un’ottica capitalistico-mercantile dove si dà più valore a chi fa, a chi produce, sminuendo come zavorra chi si limita ad essere. Nel momento in cui prevale la mentalità secondo cui “il lavoro nobilita” e la catena di montaggio è sinonimo di bellezza e conformità etica, è ovvio che chi fa (e chi ha) finisce per essere considerato meglio di chi è. Ma è una sovrastruttura economico-culturale che solo incidentalmente incrocia le diverse inclinazioni dei due generi. Nei secoli pre-capitalistici, ad esempio, era vero l’esatto contrario: chi faceva era il vile, il plebeo, il poveraccio, che doveva sgobbare per sopravvivere, mentre la nobiltà stava nel non dover far nulla, se non limitarsi ad essere. Dati di fatto storici, culturali, economici, sociali piuttosto complessi, che il femminismo semplifica, falsificandoli, sotto la categoria del “patriarcato”, per ribellarsi e vendicarsi del quale oggi si persegue una banale inversione dei ruoli. Il fare vale più dell’essere? L’uno è tipicamente maschile e l’altro è tipicamente femminile? Ebbene, vi dimostriamo, dice il femminismo, che anche noi sappiamo fare, mentre voi uomini non siete in grado semplicemente di essere.
La sostituzione forzata conduce sul medio-lungo termine a fallimenti visibili.
Il fatto è che questa forma vendicativa di rivalsa, nascendo appunto da una falsificazione, non può che avere esiti disastrosi. Tra i tanti vale la pena metterne in luce due. Il primo è che, così facendo, cioè limitandosi a scacciare a calci l’uomo dai suoi ruoli di artefice per prendere il suo posto, non si fa altro che confermare l’assunto di base: vale di più la persona che fa di quella che è. Il corpus ideologico capitalista-consumista che, da Ford in poi, si è radicato nelle anime di tutto il mondo occidentale, trova così una conferma che lo cementa ancora di più. Rubando pubblicamente il ruolo agli uomini, in altre parole, le donne si agitano e annaspano finendo per sprofondare ancora di più nelle sabbie mobili che hanno inghiottito il loro valore innato dell’assumere significato nell’essere. I più profondi osservatori del fenomeno femminista non hanno esitazione nel dire che, fin dalla sua antica nascita, esso è stato ed è ancora (più che mai) strumentale e funzionale al regime socio-economico capitalista e liberista, e queste operazioni di corsa alla femminilizzazione dei ruoli maschili nel cinema ne è la più grande conferma. Il sistema sollecita l’ansia vendicativa del femminismo, che si mobilita cercando di trasformare (e rappresentando) le donne in ciò che non sono fatte per essere. Un gioco in perdita totale per le donne stesse, ma una vittoria assoluta per il sistema, nella più cristallina logica della sindrome di Stoccolma. Nel farsi ancelle del capitalismo, le femministe rappresentano dunque la peggiore iattura per l’emancipazione delle donne.
Il secondo aspetto è una conferma di tutto questo, ma su un piano ancora più tragico perché puramente identitario. Se è vero, com’è vero, ciò che si è detto finora, le donne troveranno la loro liberazione non facendo fuori gli uomini o appropriandosi proditoriamente dei loro ruoli, ma sviluppando un’identità propria, producendo contenuti che partano dal valore intrinseco e ontologico della donna stessa. Il femminismo spinge le donne a credere di potersi emancipare “facendo tutto ciò che fanno gli uomini”. E per confermare il concetto, si prendono le figure maschili del cinema, della letteratura o della storia e le si sostituiscono con figure femminili, come se ci fosse piena intercambiabilità, come se la distinzione dei ruoli non seguisse dettami che precedono gli aspetti culturali. Così facendo la possibilità per la sfera femminile di produrre una propria identità conforme al proprio essere, esprimendola ovunque possibile (dunque anche nel cinema e nelle altre arti) viene letteralmente castrata. Il paradigma che rappresenterebbe il vero cambio di passo per il mondo femminile è: “fate tutto ciò che le donne sono”. Lo sa solo il cielo che meraviglie nascerebbero se questa fosse la direzione presa, se le donne si mettessero in condizione, anzitutto rigettando la schiavitù culturale del femminismo-capitalismo, di produrre contenuti originalmente femminili, e non semplici scimmiottamenti innaturali dell’uomo o banali furti vendicativi dei ruoli maschili. Quelle meraviglie, oltre a essere motore decisivo dell’emancipazione psico-sociale femminile (il che non è poco), andrebbero oltre tutto a fare da contrappeso e controcanto al predominio del fare imposto dal sistema attuale. L’indispensabile riequilibrio tra il valore dell’essere e il valore del solo fare (e dell’avere) è dunque essenzialmente in mano alle donne e alla loro capacità di realizzare, esprimere ed esibire orgogliosamente la propria intrinseca originalità, rigettando la logica vendicativa femminista della rapina dei ruoli e delle funzioni maschili. E lo si dice, dal lato maschile, non per timore di essere “detronizzati”. Quel timore potrebbe esserci se la sostituzione forzata conducesse a successi e trionfi planetari. Invece porta invariabilmente a fallimenti colossali. Quelli che in ambito cinematografico si definiscono “flop”.